martedì 5 aprile 2011
Dal "droit intermédiaire" al "code Napoléon"
I rapporti tra diritto rivoluzionario e code civil sono stati oggetto di molti studi negli ultimi anni, anche sotto la spinta delle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese. Gli storici del diritto hanno riportato alla luce l'eredità rivoluzionaria che ha condizionato la stesura del testo del 1804. Abbiamo visto nel precedente "post" il pensiero di Halpérin (oltre al saggio citato, va considerata la monografia L'impossible code civil, del 1992). Stefano Solimano, nella monografia Verso il Code Napoléon (pubblicata nel 1998) ha rintracciato le radici del codice del 1804 nel periodo termidoriano (1795-1799), ridimensionando la svolta del 18 brumaio anno VIII (data del colpo di Stato, novembre 1799) e quindi il ruolo del primo Console e dei suoi quattro artisans (Tronchet, Portalis, Maleville, Bigot de Préameneu). La storiografia dell'Ottocento — afferma il Solimano — esaltava nel Brumaio la cesura "che separava distintamente l'incompiuto (gli sforzi, falliti, per la codificazione) dal compiuto (il Code civil)" (p. 3). All'origine di questa versione dei fatti (il codice come frattura, dovuta all'opera dell'Empereur) fu proprio la volontà autocelebrativa di Napoleone, funzionale al suo disegno dispotico. Nel file di Eleonora Fardellotti, che vi è stato inviato in posta elttronica, trovate schematizzate le principali realizzazioni, le "leggi eversive" e la menzione dei progetti elaborati dalla rivoluzione, che costituiscono la necessaria premessa alla discussione. Si segnala anche la sintetica voce di Natalino Irti, Legislazione e codificazione (scritta per l'Enciclopedia delle scienze sociali, ma pubblicata anche in Id., Codice civile e società politica, del 1995) per la chiarezza logica ed espositiva con cui affronta le tematiche, e l'evidenza che dà nel paragrafo Codice e rivoluzione (§ 5), e nei successivi, al ruolo di mediazione tecnica cui furono progressivamente chiamati i giuristi in Francia, senza i quali "un codice né si concepisce, né si elabora". Il testo offre altri spunti problematici meritevoli di attenzione e discussione.
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È interessante vedere come Natalino Irti consideri la rivoluzione quale link per il carattere dell’esclusività del Codice, per il suo rapporto con le norme anteriori. Infatti, nella maggior parte dei Codici ottocenteschi, è prevista l’abrogazione di tutte le norme anteriori per le materie disciplinate da questi. C’è un nuovo ordine che pretende un dominio unico e totalitario che porta all’abrogazione del passato stesso. In questo periodo si formano diversi Codici. Un esempio è anche quello depositato sulla tribuna della Convenzione francese del 1793 dal Cambacèrés: il codice che non fu mai approvato, conosciuto dagli storici come Impossible code civil. In tale situazione lo spirito filosofico-rivoluzionario rifiutava le formule chiare e nette delle leggi e la classe giuridica vi era ostile. L’Irti sottolinea proprio che il Codice sia un fatto sia politico, necessitando di un’autorità decisionale del Governo, sia tecnico, perché la sua forma si realizza grazie ai principi e alla collaborazione dei giuristi. La codificazione si snoda dunque nell’ossimoro di un tempo di continuità discontinua che dimostra come le rivoluzioni politiche abbiano bisogno di un consenso tecnico ed il ceto dei giuristi appaia come moderatore e controllore. Sarà proprio la presenza di questa classe giuridica a farci arrivare al Code Napoleon del 1804.
RispondiEliminaYlenia Coronas
Secondo Natalino Irti "la codificazione è una forma storica di legislazione. L'esperienza dei codici europei presuppone non soltanto il potere di legiferare, ma il primato della legge sulle altre fonti del diritto. Consolidatisi gli Stati assoluti, declinata la forza della nobiltà e dei ceti professionali, costruita la moderna teoria della sovranità, il diritto si definisce come posizione di norme statali. Diritto è il diritto legislativo dello Stato. Il vario mondo, in cui confluivano eredità romanistiche, diritti territoriali, consuetudini agricole e usi mercantili, responsi di antichi giureconsulti e regole canoniche; tutto questo intreccio converge a mano a mano, per una sorta di razionale semplificazione, nel soggetto della sovranità.
RispondiEliminaMa in particolare Irti sul rapporto tra il codice e la rivoluzione sottolinea come questi ultimi sembrano ritrovarsi in rottura,discontinuità ed esclusività: ma le rivoluzioni non riescono a comporsi nell'alveo nuovo di un codice. L'impossibilità derivava non soltanto dallo 'spirito filosofico' della Rivoluzione, riluttante alla sobrietà delle formule legislative, ma soprattutto dall'ostile riserbo della classe giuridica, senza la quale un codice né si concepisce né si elabora. Ed infatti l'esperienza francese dimostra come per la nascita di un codice sia necessario VIGORE DI GOVERNO e AUTORITà DI DECISIONE; e che se la sua novità sta nei contenuti di materia e nei criteri di disciplina, la forma che gli è proprio e lo fa grandeggiare rispetto alle altre fonti sta nella tessitura dei principi e la collaborazione dei giuristi.
é per questo che il codice rappresenta CONTINUITà e DISCONTINUITà :l'accento della rivoluzione cade sulla rottura rispetto a un dato sistema di diritto; l'accento della codificazione, sull'ordine nuovo delle norme, che insieme accoglie e supera il passato.
Carolina Saraz
Relativamente al ciclo di lezioni sulla rivoluzione francese e sul droit intermédiaire, oltre ai miei precedenti post sulla voce di Irti “Legislazione e Codificazione”, ripresa proprio nel post odierno dal Dott. Notari, e a quello relativo all’articolo di Jean Louis Halperin (per chi fosse interessato a leggere la monografia “L’impossible code civil” ho visto or ora che è disponibile in prestito presso la nostra biblioteca, eventualmente si potrebbe organizzare un gruppo di studio visto che è in unica copia, la collocazione è /M3803), mi preme sviluppare ulteriormente l’argomento con riferimento ad un libro che stamattina ho avuto la fortuna ed il piacere di scovare nella biblioteca umanistica di ateneo, l’ opera di Trifone, “Feudi e demani: eversione della feudalità nelle province napoletane”, consigliata ieri dal Prof. Conte, fra l’altro trovata nella sua prima edizione, del 1909.
RispondiEliminaE’ interessante leggere come nell’introduzione Romualdo Trifone constati come “fu la discordia dei principi, il più delle volte opposti ed inconciliabili, che, determinando uno scarso sviluppo di alcuni istituti giuridici, consigliò un saggio ritorno al passato per ricercarvi certe norme che, un tempo ripudiate, costituirono sempre la manifestazione più schietta della coscienza giuridica d’un popolo.”: è da tale premessa che l’autore sviluppa la questione della natura giuridica del feudo napoletano.
Il Trifone apre infatti con un excursus sull’origine del feudo napoletano, che sembra poggiare le sue basi non e non solo negli istituti del diritto privato romano, bensì nell’invasione e nell’avvento, sul suolo napoletano, dei Normanni, che rese di fatto automatico ed inevitabile il processo di infeudazione del territorio.
Il popolo normanno infatti portò con sé un nuovo genere di dominazione, incentrato su una diversa conformazione e struttura di governo, tale da avere un fortissimo impatto sulla popolazione.
Il territorio venne diviso in principati, ognuno di essi sottoposto ad un conquistatore, libero ed indipendente rispetto agli altri; a tale disordine e barbarie le città si ribellarono, insorsero e tentarono di rimanere autonome (Napoli cerca infatti di restare autonoma), e a questa confusione si aggiunse il desiderio e la volontà di prevaricazione di un invasore sull’altro.
L’unico modo per uscire da questa situazione di caos apparve il rientro da parte di coloro che avevano un tempo dei diritti sui territori in questione: è da qui che mosse i primi passi la monarchia napoletana, forte della protezione papale e dell’appoggio del popolo.
Questi mutamenti determinarono di conseguenza anche l’evoluzione e l’adattamento dell’istituto del feudo al nuovo contesto politico e giuridico venutosi a creare.
Le peculiarità del feudo napoletano non consentono di assimilarlo alla categoria più generale del feudo, emblematico è il modo in cui l’autore ne raffigura il processo di adattamento:
“Dei costumi feudali franchi avvenne ciò che suole accadere delle piante esotiche, allorché sono tradotte in terreno non proprio; alla naturale vigoria di vita e di colore subentra un illanguidirsi graduale, che non di rado predispone alla morte”.
Interessante appare inoltre la comparazione fra le due esperienze, francese e napoletana, riportato nel seguente passaggio:
“Secondo le leggi fondamentali della monarchia, il sovrano aveva dichiarato di non essere assoluto padrone del territorio nazionale e quindi di non poter arbitrariamente disporne.
Il territorio era e restava nazionale, i cittadini, quelli che facevan parte della nazione, avevano su di esso un diritto di precedenza, il quale era nato con loro e con loro restava sino alla morte.
Il principe era venuto dopo, egli, specie per il fatto dell’investitura, doveva considerarsi come mandato da Dio ad assicurare ad ognuno l’esercizio dei propri diritti e non poteva spogliarnelo.
Doveva essere in terra il ministro della giustizia; quindi allorché i suoi atti eran diretti contro tale principio, cessava nei cittadini l’obbligo dell’osservanza e il dovere al rispetto.
Con questi presupposti che cosa mai che sapesse di feudo doveva uscirne fuori?
RispondiEliminaOra siffatte idee, che formavano la nostra dottrina civile e che più tardi, accettate dappertutto e senza eccezione, costituivano la base giuridica della monarchia napoletana e il principio dominante degli uomini di stato, dei magistrati e dei giureconsulti, potevano soffrire che il principe nel distribuire quel territorio, di cui egli stesso non era padrone, concedesse pure quei diritti che al cittadino venivano da natura? Avvenne in Francia, là questi abusi ebbero legale sanzione, ma da noi giammai.
Esclusi perciò dalla concessione quei diritti che il sovrano per primo doveva rispettare, esclusi i privilegi di regalìa e d’altro, che il sovrano possedeva non per diritto proprio ma per l’ufficio che rivestiva e per concessione di altri, ben poco restava di quanto era dato legalmente disporre.
Rimaneva la parte beneficiaria, la parte per così dire materiale, formata da quel dominio utile, da quel possesso precario che dal principe, quale supremo amministratore del pubblico patrimonio, si poteva concedere ai privati cittadini in cambio di personali servigi.
Ma neanche questo beneficio era libero da pesi; i jura civitatis dovevano apportare ancora delle altre limitazioni.
Fra i diritti fondati sulla natura umana, c’era prima di ogni altro il diritto alla vita, il quale esigeva il possesso delle cose ad essa indispensabili e la precedenza sui diritti che si acquistavano sul pubblico territorio.
Sicchè questo, prima d’ogni altro, doveva servire ai bisogni individuali e collettivi del popolo, nella qualità e proporzione necessaria; di poi, nella parte che rimaneva, poteva essere adibito ad usi che il principe, per l’ufficio che rivestiva, credeva di comune utilità.
A questi diritti di uomo e di cittadino certo non era estraneo il barone, egli però se ne serviva per la sua qualità di cittadino non già per quella di feudatario.
E tale era la forza di questo principio che allorché nel territorio feudale sorgevano borgate o villaggi, gli abitanti di questi avevano diritto a pretendere dal signore una parte delle terre per sopperire ai propri bisogni.
Ciò di modo che anche nell’uso dei beni materiali il diritto del cittadino veniva prima di quello del feudatario e doveva da costui essere rispettato.
In Francia era il cittadino che di fronte al barone doveva dimostrare la validità del suo diritto, da noi invece era il barone tenuto a fornire tale prova. Quanta differenza!
RispondiEliminaIl sistema feudale subì quindi nel napoletano una trasformazione completa, le sue basi furono addirittura capovolte.
Altrove era l’investito di feudo che faceva qualche concessione; da noi invece era il cittadino che, spogliandosi di un suo diritto privilegiato in favore del proprio sovrano, permetteva a costui che, in casi specialissimi ed a condizioni ancor più determinate, largisse ad altri l’uso temporaneo di qualche parte del proprio territorio.
Tolta la natura e la causa della prestazione, si potrebbe dire che fra la concessione di feudo e quella di enfiteusi non vi fosse quasi differenza, specie allorquando allo stipendium militiae fu sostituita una prestazione in danaro.
Il diritto civile però non si contentò di aver mutata la natura e la conformazione del beneficio feudale, volle far sentire la sua influenza anche in quella parte che si riferiva alla trasmissione di esso.
Successione feudale e successione civile si accostarono quasi a divenire una cosa sola; mentre altrove si cercò di mantenerle distinte ed indipendenti fra loro.
Di questa trasformazione (feudo misto) si videro presto gli effetti; le norme per la successione civile cominciarono a regolare anche quella feudale.
Infatti la costituzione di Federico II In aliquibus stabilì che le figlie avessero diritto sul patrimonio del padre e che, ove mai si trovassero a succedere sorelle nubili di qualunque nazione con militi e borghesi, i maschi avessero la preferenza con l’obbligo però di maritare le sorelle o zie.
Né minore effetto ed importanza ebbe l’altra costituzione Ut de successionibus , la quale costituiva proprio il primo fondamento della successione feudale: in essa, pur escludendo le sorelle coniugatae autem et dotatae, si veniva a confermare quanto nell’altra costituzione erasi stabilito.
Insomma, in un modo o in un altro si sviliva una parte importantissima del sistema feudale, quella cioè che, riferendosi al sesso, costituiva il presupposto del servizio militare.
L’aver ammesso poi il padre e gli zii a succedere al figlio ed al nipote non fece che accrescere la rovina del feudo; poiché esso, oltre che nelle mani delle donne, poteva passare in quelle di altre persone inadatte, per età, a sopportare le militari fatiche.
Questo per ciò che riguarda la parte intima del feudo, per ciò che riflette poi il suo generalizzarsi peggio andarono le cose al sorgere della monarchia.
…
E’ chiaro quindi che, fin dall’epoca in cui il feudo napoletano ottenne giuridico riconoscimento, esso si spogliò dei più importanti caratteri atavici propri.
All’assoluta negazione dei diritti dei cittadini nel feudo francese si sostituì un’affermazione senza restrizioni e senza limiti; alla libertà per eccezione si oppose la libertà per regola e da questi mutamenti si originarono tutte quelle conseguenze, che meglio servirono a delineare il carattere del nostro feudo.
Non il predominio del diritto politico feudale sul diritto civile, ma l’assoluta preminenza di questo su quello; non l’arbitrio del feudatario nel determinare diritti onerosi, precari e prescrittibili nei cittadini, ma affermazione generale e solenne di precedenza, d’inviolabilità e di imprescrittibilità dei iura civitatis; non l’obbedienza alla forza materiale predominante nell’ordine feudale, ma l’eguaglianza naturale, svolgentesi attraverso la civile equità delle leggi e della giurisprudenza; ecco quali furono gli elementi costitutivi del nostro sistema e le basi che giammai vennero meno nel patrimonio giuridico dei nostri padri.
Coloro che, abituati ad occuparsi di altri sistemi di feudalità, studiarono il nostro, inorridirono nello scorgere in esso tante infiltrazioni di diritto civile e non mancarono di biasimare l’abitudine dei nostri giureconsulti di allontanarsi sempre più dalla pura ragione feudale.
Questa gente però, come egregiamente osservò il Cenni, non mostrava di conoscere l’immenso progresso civile, che si racchiudeva in cosiffatto istituto napoletano, per il quale si schiudeva la via alla completa trasformazione del sistema feudale.
RispondiEliminaLa storia infatti ci diede ragione e mostrò a tutti che, se altrove occorse una lotta feconda di atrocità e di dolori ed un generale rivolgimento per togliere di mezzo una istituzione già logora e decrepita, da noi invece nessuna scossa si ebbe nelle popolazioni del regno e l’abolizione della feudalità procedette come qualsiasi altra riforma legislativa.”
Trifone affronta quindi il problema del rapporto tra feudo e baroni, i quali in sintesi tentano di plasmare l’istituto del feudo a loro piacimento, e di piegarlo ai propri interessi e privilegi; l’autore cita poi anche l’istituzione del primo catasto da parte di Carlo di Borbone:
“E come l’idea di ripartire più equamente le imposte sotto Carlo di Borbone fallì, dando origine ad un catasto condannato dagli esperti, portante seco i caratteri di un doppio testatico ed effetti non meno gravosi dei precedenti sistemi tributari; così il pensiero di fornire alle popolazioni un piccolo lembo di terra ed un mezzo sicuro di vita non ottenne sotto Ferdinando quell’attuazione che il popolo da tempo aspettava e che il governo non seppe o non ebbe la forza di dare. La vendita dei feudi devoluti, per la miseria del popolo, ridondò a beneficio di quella stessa classe che si voleva combattere; e la legge sulla divisione dei demani, che tanto bene poteva arrecare alle popolazioni, non applicata neanche, restò, come dice il Winspeare, a ricordare semplicemente la gloria del ministro che ne fu l’autore”.
Trifone conclude così la riflessione sulla natura giuridica del feudo napoletano ed ipotizza possibili soluzioni alla situazione napoletana, che svilupperà nel corso dell’opera :
“Così era il feudo quando vennero i francesi. Oramai di esso era avvenuto come di quei cadaveri che si conservavano un tempo nelle chiese: l’età, la consunzione, lo sfacelo facevano colar giù la materia corporea e lasciavano in piedi il rozzo saio o la serica veste: il vuoto indumento restava così, solo, a ricordare che in quel luogo una persona fu messa.
Più che al feudo, come istituzione giuridica in sé, bisognava far la guerra alla classe baronale per le ricchezze che essa possedeva a titolo di feudo; più che una riforma giuridica occorreva compiere una riforma economica, distruggere in altre parole la causa d’ogni abuso e d’ogni violenza”.
L’opera del Trifone consta infatti di tre parti.
Nella prima parte egli riassume la situazione del regno prima dell’opera di riforma, attraverso le posizioni di vari studiosi e giuristi del tempo, consistenti nel “rivendicare e difendere i diritti dei cittadini contro le illegali pretese dei feudatari, riaffermare la nazionalità delle terre feudali, dimostrare il carattere di precarietà del godimento e della funzione di pubblico servizio nella classe baronale, presentare i iura civitatis non già come una affermazione nuova o come un nuovo portato delle dottrine giuridiche e filosofiche del secolo, ma come essenza viva e vitale, come elemento preponderante della costituzione politica della monarchia”.
Nella seconda parte il Trifone espone l’operato dei napoleonidi nel regno, a partire dalla presentazione da parte di Giuseppe Bonaparte nel Consiglio di Stato del 2 agosto 1806 di un progetto di legge per l’abolizione della feudalità.
Di seguito uno stralcio della relazione che accompagnava il citato progetto di legge:
RispondiElimina“Il sistema feudale, che ha avuto il suo nascimento nell’epoca della maggiore barbarie e che secondo il sistema politico di questi tempi costituiva la forza de’ governi monarchici, viene oggi considerato con ragione come uno degli ostacoli più potenti alla rigenerazione di uno Stato.
I proclamatori della feudalità han sempre detto ch’essa serve per un sostegno dell’autorità de’ sovrani, ma una lunga esperienza ha dimostrato il contrario, e si è ormai conosciuto, che la potenza de’ baroni a misura che è divenuta imponente, ha indebolita quella del trono, poiché ha indebolita l’influenza assorbente de’ Principi supremi. …
Basta gettare un occhio sullo stato amministrativo di questo Regno, per scorgere quanti mali vi produca la feudalità, e quali barriere ponga alle necessarie operazioni di pubblica economia.
Per stabilire un sistema uniforme, giusto, e ben regolato per la percezione dei tributi, conviene abolire la feudalità, e togliere la differenza di beni di diversa natura e tanti rapporti vincolanti che affliggono lo Stato: assicurando ai baroni la piena proprietà di ciò che posseggono, ed indennizzandoli de’ diritti che perdono”.
Seguono il testo della legge, l’esposizione dei singoli diritti signorili, di privativa e di prerogativa, nonché un capitolo sulla divisione e suddivisione del territorio demaniale.
Nella terza ed ultima parte l’autore espone infine l’evoluzione nel periodo posteriore al 1815 dell’opera eversiva della feudalità.
A domani,
Flavia Mancini
"LA GENERALE MISURABILITA' E' IL PRESUPPOSTO DELLA GENERALE CONTROLLABILITA'"
RispondiEliminaLeggendo l'articolo di Natalino Irti consigliato dal dott.Notari,ho trovato molto interessante la sua riflessione sull"importanza della calcolabilita' giuridica.Egli sottolinea quanto sia fondamentale,soprattutto in un momento come quello attraversato dalla Francia nel periodo che stiamo trattando,la certezza normativa.
Lo sviluppo del capitalismo richiede secondo l'Irti una matematica delle azioni,cosi' che ciascun soggetto del rapporto economico sia posto nella condizione di poter calcolare il comportamento degli altri e valutare vantaggi e svantaggi della propria scelta.Lo speculare dell'imprenditore sarebbe impossibile o del tutto arbitrario se egli non disponesse almeno della calcolabilita' giuridica,ossia della certezza dei significati.Una situazione di incertezza normativa e di estrema confusione delle fonti del diritto(come quella presente fino al 18 secolo)comporta insidie e incognite nello svolgimento dei rapporti,favorisce frodi ed inganni.Al contrario la certezza delle norme stabilisce l'ordine delle azioni,le quali si mostrano vicendevolmente nel loro significato e rispondono al calcolo predittivo delle singole parti.
L'azione,trovando la propria misura nella legge,diventa controllabile dagli organi giurisdizionali.
Mi scuso per il ritardo nel postare il mio commento,ma ho avuto degli inconvenienti tecnici.
RispondiEliminaHo approfondito una tematica sul libro di Stefano Solimano “Verso il Code Napoleòn”:stato civile e filiazione(capitolo del relativo testo,Persone e Famiglia pag.239).
Il campo in questione è di grande interesse per Guy Jean Baptiste Target;infatti nel 1787 si era prodigato affinchè i protestanti potessero ottenere lo stato civile,in conformità quindi con i principi di libertà e tolleranza religiosa dell’ideologia alla base della Rivoluzione francese.Le disposizioni contenute nel progetto riprendono in numerosi punti l’Ordonnance del 1667.Target introduce però un importante novità rispetto alla normativa dell’Ancièm Regim,la separazione dei registri dello stato civile in cinque:uno per le nascite,uno per i decessi,uno per i matrimoni e con assoluta novità uno per le adozioni,istituto che riappare dopo l’epoca romana.
Solimano analizza alcuni fra gli articoli del terzo progetto per una codificazione civile del giurista francese:
Art.5)Guardando all’Ordonnance sopra citata,l’avvocato parigino ammette il ricorso alla prova testimoniale solo in caso di principio di scrittura al fine di accertare lo stato delle persone.
Art.7)Target stabilisce che quanto riportato nei registri costituisce prova fino a querela di falso.
Art.3)che riporto “c’est la possession d’ètat qui applique chanque acte a chanque individu”.Viene affermato che non è l’atto a provocare lo stato di una persona,quanto il contrario:è il possesso di stato che fonda lo status della persona unitamente all’atto.
Target fa però un eccezione per quanto riguarda i figli naturali:non consente che il figlio in possesso dello stato possa ottenere la dichiarazione di paternità nei confronti del padre.Abroga tacitamente l’art.8 l.12 Brumaio anno II,che permetteva inoltre ai figli naturali in possesso di tale stato di ottenere la loro parte di eredità,la quota spettante da genitori deceduti,confermando in tal modo lo stato.Tale affermazione di principio è chiaramente influenzata,a detta dell’autore, dalle richieste dei Termidoriani e quindi dalle vicende politiche francesi al tempo della redazione,in controtendenza al passato.Tale cambiamento di impronta concettuale pone il figlio illegittimo in posizione di netta subordinazione rispetto a quelli legittimi,evidente inoltre nella divisione della quota,di molto inferiore.
Per quanto riguarda la filiazione legittima,mentre molti progetti elaborati dopo il Termidoro stabiliranno che il figlio nato 286 giorni dopo lo scioglimento del matrimonio,può essere disconosciuto dal padre,Target eleva il numero fino a 300 rifacendosi al diritto romano e avvicinandosi,più di questi,al Code napleòn.
Quindi come succederà con il Code Napoleòn,l’influenza di questo progetto è stata quella della vecchia legislazione dell’Antico regime e dell’esperienza del droit intermediaire.
su questo sito ho trovato i nomi di alcuni testi (tra cui un paio già citati a lezione) che potrebbero interesssare
RispondiEliminahttp://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:osJlcN6daE4J:www.lostudio.org/esempi/Scalette%2520singoli%2520capitoli-%2520giurisprudenza2.pdf+la+storia+del+diritto+di+famiglia+in+italia+ungari&hl=it&gl=it&pid=bl&srcid=ADGEEShsH697ZyUPtUsqrTJQdu33bd2LJPDqZyBs9FvYEoplItFD4x5XBuv0M4kQd60K3ib8HYvxUsCO5x2c_D9CqFJrHtgrlXVI6BAZben7sUID9JVGxG3Y-mKsGc4VtZt8bHWDU20n&sig=AHIEtbRP9GTw7xuhZFYMAPbdSxaQUCYmlw
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