Eleonora Fardellotti ha preparato una sintesi interessante partendo dal libro di Grossi Un altro modo di possedere, che vi avevo segnalato, ed arricchendolo con altre letture. Il testo è lungo sette pagine, perciò non posso inserirlo nel blog. Chi fosse interessato può chiederlo a lei:
eleonorafardellotti@libero.it
Sposto il mio commento qui dal post precedente, visto che è inerente all'opinione di Grossi sulla proprietà.
RispondiEliminaYlenia Coronas
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RispondiEliminaVisto che si è parlato molto di proprietà, mi sembrava interessante questa riflessione sulla concezione di società nel corso dei secoli…
RispondiEliminaTante proprietà quante sono le esperienze giuridiche succedutesi nel tempo?
Il concetto di proprietà non ha mai trovato una definizione chiara e concisa, nemmeno attualmente nella nostra Costituzione (art.42 riconosce e garantisce la proprietà privata) e nel nostro Codice Civile (art.832, ne indica il contenuto: il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico). Provando a ripercorrere le origini di questo, che oggi è definito dal diritto privato, diritto reale, si possono analizzare le concezioni “proprietarie” che lo hanno formato.
Partendo dai giuristi romani, vediamo che non hanno definito il diritto di proprietà, ma nelle fonti ne troviamo accennati gli elementi. Nel Digesto infatti si dice che ciascuno è suae rei moderator atque arbiter e riguardo il contenuto che dominium est ius utendi et abutendi, quatenus iuris ratio patitur. Nel corso dei secoli troviamo molti richiami al potere di disporre. Ma la massima affermazione di questo diritto si trova proprio nel Code Napoleon all’art.544 che afferma che la propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la manière la plus absolue. Tuttavia la proprietà ha subito diverse critiche. Prima fra tutte la nota frase di Prouhdon “la proprietà è un furto”. Ma anche Toqueville sosteneva che la rivoluzione francese avesse abolito tutti i privilegi e distrutto tutti i diritti esclusivi, tuttavia che ne avesse lasciato sussistere uno: la proprietà. L’opinione riguardo ciò di Paolo Grossi (Quaderni fiorentini, 1988, n.17) è che la proprietà giuridica è diversa dalla concezione generica, perché è un quid qualitativamente diverso perché i giuristi ne colgono solo certi aspetti e non altri. Infatti per loro la proprietà è soprattutto un potere sulla cosa, a differenza degli economisti, per i quali essa è ricchezza, rendita dalla cosa. Perciò il catasto è formalmente un procedimento giuridico, ma con finalità e contenuti esclusivamente economici. Per Grossi inoltre la proprietà non è solo un passaggio storico, ma prima di tutto una mentalità. Questa si lega necessariamente ad una visione nell’uomo nel mondo e ad una ideologia, a causa degli interessi vitali dei singoli e delle classi. Anche se da un punto di vista sociale l’Occidente non ha mai rovesciato il caposaldo della proprietà individuale: continuità formale di un latifondo dall’età classica per tutta l’età barbarica fino al Rinascimento del XII secolo. Anche se nel Medioevo troviamo forme diverse dalla proprietà: gewere, vestitura, saisine, istituti per cui sopra la stessa terra potevano avere diritti più persone e tutte ugualmente tutelate dall’ordinamento. Tuttavia non si smentisce il dominium dell’antico titolare catastale, ma lo si devitalizza lasciando che venga espropriato nei poteri imprenditoriali dal gestore e non dal proprietario.
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RispondiEliminaMa termini come apparenza, uso, godimento ed esercizio riescono nell’Alto Medioevo ad essere fonte e sostanza di un grande numero di assetti giuridici atipici, caratterizzati da una radicazione nel reale. Nel Rinascimento giuridico si può trovare un filo conduttore nel Dominium utile, in cui la realtà del godimento viene rivestita dalla forma del dominium. Da qui l’esempio di Grossi di un contadino vestito con un abito da cerimonia per evidenziare la contraddizione di un godimento all’interno del dominium. Egli afferma che il dominio utile non è altro che la traduzione in termini giuridici di una mentalità: quella possessoria altomedievale. Tuttavia dal ‘300, per terminare nell’800, assistiamo ad un lungo processo di rinnovazione che culmina con il rovesciamento della medesima mentalità. Mentre dunque l’ordinamento medievale aveva cercato di costruire un sistema oggettivo di proprietà, il moderno tende a scardinare le figure giuridiche dal reale a favore di una ricerca di autonomia. Troviamo il pensiero di Locke che considera la proprietà come un diritto naturale dell’uomo, insieme alla vita, uguaglianza e libertà. Perciò si trovano molteplici figure nobiliari che in realtà però non hanno più le loro terre. Un esempio di questa classe “parassita” si può notare ne “La Locandiera” di Goldoni: nobili di stirpe, ma non di denaro. Essi, come il Conte ed il Marchese nella vicenda goldoniana, pretendono privilegi e servigi pur non lavorando.
Perciò possiamo notare come il concetto di proprietà sia mutato nel corso dei secoli a causa del circostante contesto storico-sociale, pur rimanendo sempre un diritto su di un bene.
Ylenia Coronas
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RispondiElimina(continua)
RispondiEliminaAl di là dell’articolo in esame, nella sezione del sito dedicata alla normativa abrogata e preunitaria, è possibile rinvenire stralci molto interessanti, come l’Editto 3 marzo 1788 sull’ “Abolizione dell’Ufficio dei Boschi ed attribuzione dei diritti di legnatico e macchiatico alle comunità della Provincia Inferiore Senese”, oppure, con riferimento al Regno di Sardegna, la “Carta Reale 26 febbraio 1839, n. 21. Approvazione del Regolamento per la divisione dei terreni nel Regno di Sardegna”, dove si afferma la necessità di procedere alla divisione dei terreni comunali “si per rendergli più proficui agli abitanti, che per antivenire le liti, e le gare non di rado originate dalla stessa comunione”, nonché all’assegnazione dei terreni appartenenti al Regio Demanio ai Comuni, “per miglior vantaggio dei medesimi, e per maggior incremento dell’agricoltura”.
Interessante inoltre la “Prammatica XXIV del 23 febbraio 1792. De Administratione Universitatum” emanata dal sovrano Ferdinando IV, con la quale si decretava la “censuazione dei demani universali”. Prevedendo l'assegnazione delle terre demaniali in primo luogo ai bracciali e poi ai cittadini coltivatori più facoltosi, il re stimava di migliorare le condizioni degli “avviliti vassalli”, e di poter rendere più proficuo il processo di produzione agricola (“La scarsa utilità proveniente dai terreni demaniali di varia specie, de’ quali abonda il Regno, doveva eccitare le provvide cure del Clementissimo Sovrano a rivolgervi lo sguardo per fare ovunque fiorire la meglio intesa agricoltura, sorgente primordiale delle ricchezze, in quanto fosse compatibile collo stato delle popolazioni, e coerentemente alle leggi in osservanza, e dritto di proprietà”).
Tuttavia le divisioni demaniali effettuate dal provvedimento in esame costituirono un unicum, tanto più che l’editto naufragò di fronte al tradizionalismo dei ceti dominanti e alla debolezza della borghesia terriera.
Quanto agli usi civici, stabiliva l’articolo XI della Prammatica:
“XI. — Ne’ demani feudali si potrà valutare l’uso civico, e compensarsi con una porzione delle terre del demanio medesimo, che sarà d’intera proprietà delle Università, e nella valutazione potrà essere intesa persona, che faccia le parti del Barone, e non avrà effetto senza il Sovrano assenso, come sarà in appresso dinotato.”
Ed ancora il tredicesimo:
“XIII. — Per quei terreni di proprietà de’ cittadini, ma soggetti all’uso del pascolo comune, quando non siano coltivati, se ne potrà affrancare la servitù, pagandone corrisponsione all’Università, o al Barone, o a colui cui si appartenga la fida, da essere valutata, per poterli chiudere, e con maggior diligenza coltivare.”
Ancora una volta il processo di affrancazione delle servitù, dunque, è previsto a fronte della corresponsione di un’indennità.
Alessia Guaitoli
L’eversione della feudalità non è altro che la conseguenza di una concezione ideologica del concetto di proprietà,che si afferma nella Francia rivoluzionaria e da questa si diffonde,la quale consiste nel catalogare il diritto di proprietà strettamente connesso con quello assoluto di libertà,perciò individuale, indissolubile e valevole erga omnes.Si disgrega l’indissolubilità feudale,per rendere statali i territori,incentivare la circolazione di ricchezza,risanando l’economia.
RispondiEliminaLa proprietà individuale come diritto assoluto è codificata con il Code Napoleon,ma stante quanto riportato da Grossi nel suo libro “Un altro modo di possedere”,il dibattito sulle proprietà collettive come altra definizione di proprietà accanto a quella individuale,è presente durante l’Ottocento,come voce fuori dal coro.
Rappresentante del pensiero dominante è Jean Baptiste Victor Proudhon (1809-1865),il quale nel “ Traitè du domaine de propriété” analizzato da Grossi,espone i rilievi morali ed ideologici del concetto di proprietà individuale:il cittadino su cui si può contare è il PROPRIETARIO,il patrimonio non è più appendice ma estensione della personalità dell’individuo,rientra nella sua sfera di autonomia e libertà,tanto più si è tanto più si HA insomma.Jhonn Locke e il suo concetto di PROPERTY ha influenzato insieme ai fisiocratici,il pensiero riguardo il possedere.L’avere individuale si orienta in una società unidimensionale come quella assolutista,in contrapposizione con quella pluridimensionale del sistema feudale medievale.La proprietà come sopra accennato,non ha però rolo risvolti ideologici,ma anche morali:si compone come concetto etico,di certo di grande rilevanza,ma che a mio parere si è distorto fino ad oggi in un accezione di avere individuale distorto,in cui si è persona solo se si possiede,materialità invece che essere.
Tornando all’argomento del post,tale individualismo possessivo è carattere essenziale della classe borghese che si afferma con la Rivoluzione Francese:essere proprietario vuol dire essere persona virtuosa,il fulcro dell’attenzione del sistema pubblico ora centralizzato.Fondamento di questi principi lo si trova nella paradisiaca concezione dello stato di natura,il proprietario si ammanta di sacralità nel suo sacro dovere di conservare l’assetto sociale- politico e giuridico essistente.I concetti di GENERALITà e ASTRATEZZA sono fatti a posta per la classe media,si configurano nell’ottica egualitaria che sta alla base di questa concezione della proprietà.Tutto si pone molto bene alla base del concetto di Stato UNITARIO e COMPATTO,che ha sotto controlo la produzione normativa.Lungimiranza della borghesia,se vogliamo estendere il discorso al liberismo giuridico,di cui l’istituto della proprietà di questo periodo fa parte,che è riuscita ad affermare il suo potere in campo economico a lungo nella storia.Equilibrio fra liberismo economico e assolutismo giuridico,sottolineata dalla codificazione,ricollegandoci ai post precedenti.
Non sorprende che le teorie avanzate da giuristi e pensatori come Maine , Le Play e Carlo Cattaneo siano state zittite:faceva paura disgregare quell’unitarietà di possesso,che è stata tanto faticosa da ottenere.
Ma un'unica visione di pensiero,per quanto giusta può apparire ed essere,non può dominare incontrastata,e il dissenso deve essere ascoltato.E come dice Grossi:” è uno dei rarissimi casi in cui un dibattito dottrinale ha cittadinanza nelle aule parlamentari e funge da stimolo per il legislatore”.
Oltre al riassunto della Dottoressa fardellotti,mi sono basata su un paragrafo di un altro testo di Paolo Grossi,L'europa del diritto(pag.113).
RispondiEliminaRiporto un articolo di paolo Grossi sui domini collettivi in rapporto con il diritto statuale vigente.
RispondiEliminahttp://www.demaniocivico.it/public/libro/grossi.pdf
Chiara Mele
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RispondiEliminaAllego per chi lo volesse consultare il riferimento al Codice di Napoleone il Grande pel Regno d'Italia, nell'edizione fiorentina del 1806, che è possibile trovare su Google Books
RispondiEliminahttp://books.google.it/books?id=wS82AAAAIAAJ&printsec=frontcover&dq=codice+di+napoleone+il+grande&hl=it&ei=CQ6kTcWuJaqM4gai0ciICg&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=5&ved=0CEEQ6AEwBA#v=onepage&q&f=false
Qui invece è possibile consultare il testo del Codice per lo Regno delle due Sicilie, nella Seconda Edizione del 1819
RispondiEliminahttp://books.google.it/books?id=8y1CAQAAIAAJ&printsec=frontcover&dq=codice+per+lo+regno+delle+due+sicilie&source=bl&ots=or1oEyUASV&sig=Ecnqm5HgTdTeD3Ca5oxhaFyEuGk&hl=it&ei=JhikTbmMONK5hAeC8rTOCQ&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=3&ved=0CCUQ6AEwAg#v=onepage&q&f=false
Qui un'altra versione
http://isdi.giu.uniroma1.it/Biblioteca_digitale_file/codicipreuni/03.%202sicilie.pdf
La questione della fine delle proprietà collettive nella Francia del XVIII secolo viene affrontata dallo storico francese Marc Bloch in un interessante saggio, dal titolo “La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario”.
RispondiEliminaIn quest’opera l’autore si sofferma in particolare sul momento di transizione e di passaggio dal concetto di proprietà comunitaria, largamente consolidato nell’epoca pre-rivoluzionaria e propriamente tipico della società di Ancièn Regime, a quello completamente nuovo di gestione individuale delle campagne, fenomeno che Bloch chiama “individualismo agrario”.
La riflessione di Bloch parte e poggia le sue basi nello studio di due memorie di Henri Sée, “Une enquête sur la vaine pâture et le droit de parcours à la fin du XVIIIéme siécle” della storia del pascolo collettivo nel XVIII secolo” ( in Revue du dixhuitième siécle, 1913, pp.265-278) e “La question de la vaine pâture” ( contenuta nel volume “La vie économique et les classes sociales en Frances au XVIIIème siècle”, 1924, pp. 25-53).
Per meglio delineare l’oggetto della trattazione, emblematica appare la citazione di Rousseau, con cui Bloch apre il saggio:
“Il primo che, dopo aver recintato un terreno, si azzardò a dire: questo è mio…fu il vero fondatore della società civile”.
La situazione nelle campagne francesi nella società di antico regime vedeva un sistema consolidato in cui alcune terre venivano riservate alla collettività, principalmente con finalità di pascolo, ma anche foreste e brughiere in cui poter esercitare il diritto di legnatico, ed infine i beni comunali : l’autore parla in questo senso di “socialismo”, di mentalità comunitaria, argomentando la tesi della rilevanza dell’istituto della proprietà collettiva e della forza delle collettività sulla base anche delle doglianze con cui i villaggi lamentavano un continuo decremento del proprio patrimonio.
A disposizione della collettività erano poi anche le terre che, seppur formalmente private, venivano gravate da vincoli giuridici di varia natura, riconducibili alla categoria di servitù collettive.
Questo fenomeno sembra trarre origine dalla prassi del pascolo vano obbligatorio, secondo cui non appena avveniva la raccolta dei frutti o la tagliatura delle spighe o del fieno, la terra, divenuta ormai vuota, doveva ospitare le bestie del villaggio, unite sovente in gregge comune, per il pascolo: i diritti del proprietario cadevano, secondo l’autore, come in letargo; Bloch cita il giurista Laurière, secondo il quale infatti “in forza del diritto generale della Francia i beni personali sono riservati a un uso esclusivo e soggetti a difesa solo quando i frutti sono sulla pianta; e a partire dal momento in cui vengono tolti, la terra diventa, per una sorta di diritto delle genti, comune a tutti gli uomini, ricchi e poveri senza distinzione.”
Accanto al pascolo collettivo, che si esercitava all’interno dei confini del villaggio, vi era un altro fenomeno, quello del “parcours”, espressione difficile da rendere in italiano, rapportabile al concetto di pascolo promiscuo, concetto però anch’esso difficile da afferrare, in quanto utilizzato da molti scrittori dell’ancien régime con diverse accezioni.
Più in generale, per “parcours”, chiamato anche nel nord della Francia “entrecours de pâturage”, Bloch intende il pascolo promiscuo fra comunità diverse.
Accadeva infatti che le comunità fra loro vicine avessero il diritto di inviare le proprie greggi a pascolare nel territorio della comunità limitrofa.
RispondiEliminaAffinché le bestie potessero pascolare libere ed indisturbate veniva fatto divieto al proprietario di apporre termini o recintare i confini dei propri terreni.
Alla compressione assoluta del diritto di recintare, al proprietario si sommava e veniva imposta inoltre la rotazione coatta, secondo cui egli doveva sfruttare il proprio terreno secondo un ordine comune consuetudinario e prestabilito di semina e raccolto: semina d’autunno nell’anno in cui i suoi vicini, nel medesimo quartiere o villaggio, coltivavano “grano d’inverno”; in primavera, quando veniva il turno dei “grani di quaresima”, mietitura alla data stabilita; nel periodo del maggese (ogni 2 anni nel mezzogiorno, ogni 3 nel resto del paese) lasciare i suoi campi incolti dall’epoca dei raccolti fino alle arature dell’anno successivo; di fatto ciò equivaleva ad abbandonare i campi per un lungo lasso di tempo al pascolo senza percepire alcun guadagno personale, e senza poter in alcun modo sottrarsi, dal momento che era rigorosamente proibito “cambiare stagione”.
Così come generalmente descritta, questa situazione si atteggiava diversamente nel territorio francese, le servitù di cui appena parlato pesavano in maniera più o meno incisiva sui diritti del proprietario.
Così accadeva che in Provenza e nelle Fiandre questi avesse, dopo non poche lotte, la possibilità di chiudere i propri terreni con muretti e siepi, e di accogliere per il pascolo dunque soltanto le proprie bestie.
Vi fu in questo senso in questi territori un vero e proprio processo di rivoluzione, certamente lungo e lento, volto alla riduzione ed al ridimensionamento del fenomeno dei pascoli comuni.
Il resto della Francia restava però saldamente ancorato a quel sistema di tutele che privilegiava la dimensione comunitaria, espresso e contenuto nelle consuetudini di provincia, che sovente la monarchia aveva messo per iscritto, oppure intrinseco nelle tradizioni locali riconosciute dalla giurisprudenza.
Nasce in questo periodo una letteratura che si scaglia contro le proprietà collettive, e lo fa probabilmente senza avere troppa conoscenza dei fatti e della vita agricola; si avverte in taluni casi che essa è nata lontano dalla realtà rurale.
Le ragioni giustificatrici di tale affondo risiedono in motivi di carattere economico e giuridico: il pascolo vano costituiva di fatto un ostacolo allo sviluppo ed allo sfruttamento economico massiccio dell’agricoltura, in quanto costringeva i proprietari a tenere i terreni troppo a lungo incolti, senza poter pertanto percepire un utile, un profitto su questi ultimi.
Il fine del pascolo vano era quello di alimentare il bestiame, ma spesso i terreni su cui le bestie pascolavano non avevano da offrire che erbe e sterpaglie, del tutto insufficienti a soddisfare il bisogno anzidetto: non appariva più opportuno dunque guardare ad altre esperienze, come quella fiamminga, in cui agli animali venivano offerti foraggi artificiali come erba medica o trifoglio oppure il fieno di campi appositamente coltivati?
L’altra fonte di grande opposizione era costituita dalla rigidità della rotazione coatta, che impediva di massimizzare la produzione agricola, in quanto, imponendo un’unica data per la raccolta o la mietitura, sovente costringeva il proprietario a raccolte o falciature prima della piena maturazione dei prodotti agricoli.
Dal punto di vista giuridico rilevavano le due opposte concezioni del diritto di proprietà: per coloro che ritenevano come “sacra” la proprietà individuale il pascolo collettivo ne costituiva una forte limitazione, o temporanea abolizione (durante il periodo in cui il proprietario veniva spogliato del suo diritto in favore del pascolo all’interno delle proprie terre); ecco allora che il porre termini, confini, si poneva come un simbolo, secondo Durival “un appezzamento chiuso da muri, palizzate o siepi costituisce la sola vera proprietà”.
I diritti signorili ed i diritti collettivi soffocavano, comprimevano, limitavano la libera proprietà.
RispondiEliminaBersaglio della critica era non solo il pascolo vano ma anche il “parcours”, che veniva guardato con ancor più disfavore, in quanto, creando un legame tra due comunità, rendeva di fatto impossibile sradicare le rispettive servitù reciproche.
In antitesi a quanto appena enunciato si pongono le tesi dei difensori delle proprietà collettive, che facevano leva essenzialmente sul bisogno dei poveri: in realtà dietro la difesa degli interessi dei più bisognosi si celava sovente la tutela dei ben più rilevanti interessi dei signori, dei ricchi.
Ciò non significava tuttavia che le proprietà collettive non giovassero ai poveri, da cui anzi traevano la loro primaria fonte di sostentamento.
Bloch fa un excursus di tutte le tappe che hanno portato alla fine del pascolo collettivo ed all’affermazione dell’individualismo agrario.
Un proprietario terriero dell’epoca non aveva molte possibilità di opporsi e sottrarsi al pascolo collettivo, ma poteva comunque: in primo luogo tentare di erigere una palizzata o scavare un fossato, ma enormi erano i pericoli ed i rischi cui si esponeva; quindi appellarsi all’assemblea degli abitanti del villaggio per ottenere una deliberazione di riforma dei vecchi statuti rurali; da ultimo poteva ricorrere alle autorità superiori (intendenti, Consiglio del Re, Re), le quali potevano concedere dei favori personali, accordando di tanto in tanto autorizzazioni di chiusura.
Ciò cui tuttavia anelava il proprietario non erano queste concessioni, di carattere “grazioso”, da parte dell’intendente di turno, manifestanti i poteri pressoché illimitati di cui essi godevano, bensì l’ottenimento di pronunciamenti validi per l’intera regione, come decreti di baliaggio o di Corte sovrana, che con il pretesto di interpretarla, modificavano od addirittura stravolgevano la consuetudine.
Altra questione che affliggeva il proprietario era quella relativa al regime dei prati ed al cosiddetto “secondo fieno”.
Non di rado accadeva infatti che in seguito al primo raccolto ve ne fosse un altro; controversa appariva la destinazione e l’utilizzo del secondo fieno: ci si chiedeva quindi se il pascolo comune potesse iniziare fin dalla fine del primo raccolto, destinando pertanto alla comunità (ed al bestiame) il secondo raccolto, oppure se fosse opportuno e necessario attendere il secondo raccoltola parte del proprietario, che ne poteva disporre ed alienarlo, ricavandone un profitto, prima di “aprire” i campi al pascolo collettivo.
Relativamente a quest’ultimo caso l’autore parla di “prati di guadagno”, “a ricrescita”, “a due erbe”.
Tale problema iniziava ad assumere una certa rilevanza nelle annate di raccolti scarsi, in cui il secondo raccolto poteva costituire per il proprietario un’ancora di salvezza, e rilevava anche nel caso in cui occorresse rifornire di foraggi la cavalleria del Re.
Nel 1682 l’ordinanza dell’intendente di Alsazia, La Grange, sembra risolvere il conflitto, vietando, all’interno della circoscrizione di sua competenza, ogni forma di pascolo collettivo sui prati prima della raccolta del secondo fieno.
Le ordinanze dei successori di La Grange, riprendono e confermano l’indirizzo dettato, ma non pare che esse siano state sempre osservate in modo fedele.
Le comunità non presero bene il contenuto di tali ordinanze e ricorsero con grande frequenza ai tribunali ordinari: intervenne a ricostituire l’ordine un decreto del Consiglio del 25 aprile 1727, con cui venne conferita all’intendente la competenza a dirimere tutte le contestazioni sorte e quelle prossime a venire relative alla materia del regolamento di La Grange.
L’altra faccia del problema del secondo fieno, una volta stabilito che esso veniva sempre più spesso sottratto al pascolo collettivo è rappresentata dal diritto (basato sulle antiche consuetudini e all’epoca difficile da non riconoscere) che la comunità rivendicava su di esso, nel senso che essa si offriva di falciarlo, per poi ridistribuirlo fra gli abitanti o venderlo.
La spaccatura sociale fra i possidenti e la comunità si apriva, come immaginabile, anche e soprattutto su questa questione, dal momento che risultava impossibile bilanciare i diversi ed opposti interessi: il tentativo nel 1785, da parte del sottodelegato di Vervins, di raggiungere una soluzione di compromesso, ripartendo il secondo fieno per metà tra collettività e proprietario, fallisce miseramente, rivelando come di volta in volta le assemblee si piegassero all’una o all’altra fazione.
RispondiEliminaApprodi diversi e diametralmente opposti si hanno nelle diverse regioni: in Lorena vengono sacrificati i proprietari, che raccoglievano 1/3 dei secondi fieni, mentre i restanti 2/3 andavano agli abitanti, che ripartivano fra loro proporzionalmente al numero dei capi di bestiame posseduti; nel ducato di Borgogna il secondo fieno andava per l’intero alla comunità, che lo divideva come sopra; in Francia Contea e nel Béarn, al contrario, il secondo fieno era interamente ad appannaggio dei proprietari.
La questione della proprietà collettiva non aveva trovato molti consensi nei paesi del sud-ovest, in cui era meno vivo lo spirito comunitario e la geomorfologia dei terreni impediva uno sfruttamento da parte della collettività.
La svolta in senso anticollettivista venne data dal ruolo assunto dagli Stati provinciali, formati in prevalenza da grandi proprietari terrieri, che si imposero nelle trasformazioni e nei mutamenti agrari a difesa della minaccia del pascolo collettivo.
I primi interventi sono relativi alla sottrazione di alcune colture dal pascolo comune, come oliveti, vigne, orti; ma degni di nota sono anche gli interventi che stabiliscono per gli abitanti che il numero degli animali da mandare al pascolo deve essere proporzionale all’estensione dei loro beni, e ancor più importante, che sottraggono definitivamente dal pascolo comune i campi recintati e chiusi, riconoscendo la consuetudine relativa alla libertà di chiusura.
Due personaggi che assunsero un ruolo significativo nelle scelte di politica agraria del tempo sono Bertin e Trudaine, il primo avente fra le competenze ordinarie l’amministrazione dell’agricoltura, il secondo intendente delle finanze esperto anche nel settore agrario.
Entrambi si mostravano aperti e ben disposti nei confronti della libertà di iniziativa economica; essi guardavano con interesse alla situazione di mutamento nelle campagne inglesi ed al fenomeno delle “inclosures”, ed auspicavano la costituzione di un Consiglio reale d’agricoltura, che non vide mai la luce, ma che aprì la strada alla formazione del Comitato d’agricoltura.
Le proposte di Bertin di abolire il pascolo collettivo si trasformarono di fatto nella possibilità di sottrarre al pascolo almeno una parte del fondo, equivalente ad 1/5.
Balza poi alla cronaca la figura di un altro personaggio, l’intendente d’Ormesson, il quale, parallelamente a Bertin, che prima di agire si informava e documentava sulla situazione agraria, facendo delle vere e proprie inchieste, passò direttamente all’azione, prescrivendo in tre province, Lorena, Béarn, Tre-vescovadi, la libertà di chiusura, e nell’ultima anche l’abolizione del “parcours”.
Prima di estendere ad altri luoghi tali elementi di rottura, anche egli ritenne però opportuno informarsi sulle condizioni di ogni regione.
D’Ormesson si fece protagonista di una serie di atti legislativi di rottura, ben più incisivi di quelli di Bertin, gli editti di “chiusura”, o di “recinzione”.
Con essi non si giunse ad una vera e propria abolizione del pascolo collettivo, tutt’al più si arrivò a vietare il pascolo promiscuo fra comunità diverse.
Resta da sottolineare il fatto che tentare una riforma agraria a livello nazionale riuscì impensabile, poiché essa sarebbe andata ad incidere su situazioni molto diverse fra regione e regione; non restò dunque che emanare tutta una serie di editti ad hoc per ogni area geografica.
Nel 1773 il re affidò a Bertin il compito di riunire “l’esecuzione delle leggi in materia di dissodamenti, bonifiche e abolizione del diritto di percorso, nonché le questioni relative alla spartizione dei terreni comunali”.
RispondiEliminaNel 1785 si diede vita ad un nuovo organo consultivo, il “Comitato di amministrazione dell’agricoltura”.
Il movimento di rottura con le antiche servitù collettive assunse, come affrontato anche nelle scorse lezioni, una dimensione sopranazionale, europea, varcò i confini del territorio francese; esso riuscì a rovesciare completamente la situazione antecedente, in cui la tutela della proprietà collettiva aveva ruolo primario (ed era non di rado spalleggiata anche dalla Chiesa, la quale rivendicava i diritti dei più bisognosi di sopravvivenza e sostentamento), conferendo assoluta centralità alla proprietà individuale della terra, che si afferma per la prima volta proprio con la libertà di recintare, con la libertà di chiusura dei fondi.
A domani,
Flavia Mancini
Alcuni di noi si sono spesso soffermati, anche in relazione ai precedenti argomenti trattati, sulla particolare situazione della Sardegna, isola oggetto per secoli di dominazioni straniere, in cui si è proceduto, a partire da Vittorio Amedeo II, ad un processo di vera e propria “italianizzazione”, impresa lenta e soprattutto graduale.
RispondiEliminaLa storia di questa terra sembra davvero meritare un’autonoma trattazione; così anche in relazione alla questione agraria ed al tema delle proprietà collettive, su cui questo breve commento è incentrato.
La situazione della Sardegna all’indomani della rivoluzione francese è quella di una terra che sembra vivere immersa in un profondo stato di torpore, la dominazione spagnola ha inciso molto in questo senso, imponendo sul territorio sardo il fardello del sistema feudale spagnolo.
L’esigenza di un rinnovamento delle strutture arretrate, di cui si compone il sistema, si manifesta in via di eccezione (ad esempio, è del 1780 la sommossa annonaria contro gli abusi feudali nei villaggi rurali di Ossi, Solanas, Sorso, etc.): per il resto fino al 1792 vi è estrema indifferenza per quanto avviene in Francia.
Gli unici a tentare di introdurre sul suolo sardo i principi ed i dettami della rivoluzione sono Filippo Buonarroti (con la redazione, nel 1793, della “Costituzione Repubblicana dell’Isola della Libertà, andata perduta) e l’avvocato Gioachino Mundula.
Con ogni probabilità la borghesia sarda non è adeguatamente preparata a recepire tali principi, né abbastanza intraprendente (l’unico moto rivoluzionario che balza agli onori delle cronache del tempo è la lotta per l’assegnazione dei palchi a teatro portata avanti dalle borghesi contro le nobildonne locali!).
In questo contesto si colloca la questione del regime comunitario delle terre, fortemente sentita dalla popolazione locale, in quanto causa del perenne ed insanabile contrasto fra la “classe” dei pastori e quella dei coltivatori.
Ecco un’istantanea sulla distribuzione delle terre e delle campagne sarde, tratta dal testo “La Sardegna sabauda nel Settecento”, di Carlino Sole, Chiarella, Sassari, 1984:
“I terreni destinati al pascolo erano distinti in “padru” (prato), per il bestiame ammansito (cavalli, buoi, vacche) e “saltu” (bosco e macchia), ad uso del bestiame allo stato brado.
Nell’ambito di questi terreni ogni pastore aveva in concessione una “cussorgia”, tratto di terreno più o meno esteso in rapporto alla consistenza del gregge, non delimitato da confini ben definiti, su cui il pastore esercitava un diritto di pascolo non esclusivo, ma preferenziale e nel quale poteva impiantare una capanna (“pinneta”), per il ricovero notturno e per la lavorazione del latte.
Le terre coltivate erano divise in “tanche”, chiuse da muri a secco o da siepi, ed in “vidazzoni”, estensioni di terreno aperto e dissodato, posto per lo più intorno all’abitato, su cui si esercitava l’alternanza tra “seminerio” e “paberile” (o riposo a pascolo), secondo un criterio di rotazione annuale o pluriennale, che veniva determinato dalla comunità.
Il tratto di terreno, per lo più irriguo, permanentemente destinato alle coltivazioni, era denominato “sa segada de sa jua”.”
Questo sistema di sfruttamento comunitario delle terre si rivelava dunque assai improduttivo in rapporto alla produzione agricola.
RispondiEliminaI terreni assegnati a sorte per la coltivazione, detti “vidazzoni”, rimanevano in capo al contadino per una sola annata, o poco più; per tale ragione questi non aveva alcun interesse ad arricchirli o averne cura, essi giacevano sovente in totale stato di incuria (da sottolineare come poi i contadini sardi non fossero soliti utilizzare concimanti per rendere i terreni più fertili e produttivi).
I contadini avevano quindi come unico interesse quello del raccolto della stagione.
I terreni chiusi costituivano davvero un numero esiguo, e per la verità nemmeno i relativi proprietari se ne curavano troppo, anche poiché non di rado accadeva che tali fondi si trovassero in prossimità dei “vidazzoni”, i cui confini non erano ben definiti, e pertanto i proprietari risultavano esposti al rischio dell’ abbattimento delle chiusure e del conseguente assoggettamento del fondo al sistema comunitario della rotazione.
La pressoché totale mancanza di terreni recintati di certo non favoriva le coltivazioni, che spesso venivano danneggiate o distrutte dal bestiame, che circolava di frequente privo di un pastore che ne indirizzasse e controllasse il pascolo.
Da qui la profonda ostilità fra pastori e contadini, frutto, come accennato, di frequenti liti e controversie.
Il problema delle chiusure dei terreni fu oggetto di lunghi dibattiti (nella sua opera “Rifiorimento”, il Gemelli attribuisce alla mancanza di terreni chiusi la maggior parte dei mali che affliggeva l’agricoltura sarda); se ne interessò anche la Regia Società Agraria ed Economica di Cagliari, che nel 1805 dedicò una serie di sedute alla questione, rilevando come la chiusura dei terreni avrebbe potuto far rendere questi ultimi fino a quattro volte tanto, e decretando come l’apertura al pascolo potesse essere possibile soltanto a raccolto terminato, consentendo al bestiame di sfruttare le stoppie rimaste sul fondo.
Secondo la Società infatti “chiudere le terre con mura significava da una parte sottrarle alle invasioni di struggitrici del bestiame nomade, dall’altra ottenere la piena proprietà perfetta della terra, la sua piena disponibilità e dunque la possibilità di intraprendere cicli colturali più ampi e regolari”.
Il processo di chiusura doveva necessariamente essere graduale, non si poteva sottrarre drasticamente la terra ai pastori.
Con l’Editto del 1806 Carlo Felice seguì l’indirizzo della Società, sollecitando la chiusura delle terre in favore della coltivazione degli ulivi: ecco allora che i proprietari di terreni aperti potevano recingere i terreni per impiantarvi degli uliveti; vi era addirittura l’obbligo di chiudere i terreni in capo a coloro che intendevano innestarvi gli “olivastri”, pena la decadenza del diritto di proprietà stesso.
Nel 1820 intervenne in questo senso una legge per la chiusura dei terreni, l’Editto delle Chiudende, diretto a favorire la formazione della proprietà privata perfetta.
L’editto si componeva di 9 articoli:
emblematico l’art. 1: “Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe o di muro, o di vallari di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o di abbeveratoio”.
L’art 2 autorizzava chiusure anche su terreni soggetti a servitù di pascolo, purchè autorizzate dal Prefetto, previa consultazione delle comunità interessate.
Anche i Comuni avevano la possibilità di fare altrettanto sui propri territori, con le stesse facilitazioni concesse ai privati (artt. 3 e 4), o addirittura ripartirli in quote fra i capifamiglia, o venderli o affittarli.
Se dopo un anno il Comune non aveva preso la sua decisione, tre capifamiglia potevano chiedere al Prefetto la “lottizzazione” dei fondi (artt. 5 e 6); allo stesso regime erano assoggettati i terreni della Corona (art. 7); sui terreni era libero ogni tipo di coltivazione, tabacco compreso (artt. 8 e 9).
All’Editto seguì nell’immediato la nomina di una Delegazione, composta da tre membri, avente il compito di seguire l’attuazione delle chiusure e competente a dirimere le eventuali controversie sorte in merito.
RispondiEliminaSecondo Manlio Brigaglia, che si occupa della questione delle chiusure nell’opera “Dagli ultimi moti antifeudali all’autonomia regionale”, “l’editto tendeva soprattutto a mettere ordine e, se così si può dire, modernità nella proprietà rurale isolana, per promuoverne la redditività, creando contemporaneamente una classe di proprietari incoraggiati alla intensificazione ed al miglioramento delle colture, legati alla monarchia e in posizione di crescente autonomia rispetto ai feudatari”.
Chi veramente sfruttò e fu avvantaggiato dall’editto furono non i piccoli proprietari, come auspicava il legislatore, bensì i “prinzipales” delle ville e la borghesia: ciò anche per il fatto che il meccanismo delle chiusure, così come previsto, richiedeva investimenti iniziali di entità non lieve; per poter procedere alle chiusure doveva attivarsi infatti un complesso meccanismo giudiziario, di certo non accessibile a tutti, strutturato con tutta una serie di procedure per la prova del diritto di proprietà, di non semplice rilevazione (e soggetto al libero arbitrio dei Consigli Comunitativi, controllati dai “prinzipales” stessi), che ogni soggetto doveva allegare se voleva procedere alla chiusura del fondo.
Di fatto l’Editto non raggiunse gli obiettivi prefissati, né riuscì a riportare l’ordine nel caos della questione agraria sarda: dal sistema delle chiusure l’agricoltura non uscì nè rafforzata né implementata; troppo spesso i fondi che venivano chiusi erano anche quelli gravati dalle servitù (e che l’editto al contrario astrattamente sottraeva, come abbiamo visto, dal sistema delle chiusure), negando di colpo l’unico mezzo di sostentamento ad una moltitudine di persone; inoltre accadeva spesso che i terreni chiusi venissero adibiti al solo pascolo, dietro pagamento di canoni d’affitto sempre più elevati, che andavano ad arricchire le tasche dei proprietari, immiserendo sempre più quelle dei pastori, già duramente vessati.
Questi ultimi, in alleanza con i piccoli agricoltori, diedero inizio ad una serie di disordini e di rivolte: essi erano stati duramente colpiti dalle chiusure, a tal punto da non aver mezzo di sostentamento alcuno.
La situazione divenne più aspra nel 1830, anno in cui interi villaggi e paesi dell’entroterra, la cui economia si reggeva quasi esclusivamente sulla pastorizia, iniziarono ad organizzare una vera e propria rivolta, cui partecipava l’intero villaggio, donne comprese.
Nei racconti di Vittorio Angius, riportati da Brigaglia, si riporta il caso di Paulilatino, che consente di comprendere appieno il degenerare del sistema messo in moto dall’Editto: nel caso in questione un grosso proprietario aveva chiuso un vasto appezzamento di terra, includendovi l’unica fontana da cui il paese intero traeva l’acqua , e costringendo tutti gli abitanti del villaggio ad attingere l’acqua dal ruscello che sgorgava dalla fontana soltanto nel tratto in cui, ormai torbido, esso usciva oltre il “chiuso”.
Il sistema delle chiusure andava poi a colpire interessi diversi e configgenti rispetto a quelli suesposti, e cioè quelli dei feudatari dell’isola, che, “come detentori dei diritti sulle terre si vedevano minacciati dall’orientamento generale della politica del governo, e come allevatori lamentavano la progressiva scomparsa dei terreni comuni”.
I vicerè tentarono di dare una risposta alle rivolte, inviando prima una delegazione, poi una commissione speciale, che represse gli abusi, ma colpì anche la popolazione, in quanto sanguinosa e spietata nell’operare.
Nel 1833 il viceré arrivò ad impedire che le chiusure abbattute venissero ricostruite ed ordinò l’abbattimento di quelle costruite in mancanza di autorizzazione: tale situazione sarebbe durata soltanto fino al 1839, anno in cui una nuova carta reale tornava a disciplinare le chiusure, autorizzandone la ripresa e semplificandone le procedure di ottenimento.
La situazione venutasi a determinare rendeva il territorio sardo classificabile in tre fasce orizzontali:
RispondiEliminala prima, corrispondente grosso modo alla provincia di Sassari, vedeva un sistema di chiusure diffuse, chiusure in parte antecedenti all’Editto, anche per il tipo di economia vigente nel luogo, prevalentemente agricolo e votato alla coltura dell’olivo; la seconda, corrispondente alla provincia di Nuoro, vedeva anch’essa molte chiusure, ma non determinate dal potenziamento dell’agricoltura, come nella prima fascia, bensì dall’esigenza di costituire un diritto di proprietà sui pascoli ed imporvi il pagamento di un canone (questo è il caso in cui i pastori furono colpiti più duramente, e numerosissimi furono i tumulti in nome del ritorno all’antica tradizione comunitaria);
la terza ed ultima fascia, corrispondente alla provincia di Cagliari, vedeva l’attecchire del nuovo sistema anche in conseguenza della economia del grano, assai sviluppata in quei luoghi che ben si prestava alle chiusure.
Questa la Sardegna dopo le chiusure: il paesaggio agrario ne risultava fortemente cambiato, ridisegnato pressoché ovunque, e frazionato da una miriade di muretti a secco.
Da questi interventi non nacque, come auspicato, una nuova borghesia agraria, né vennero sciolte le riserve al sistema delle chiusure, sollevate dal rinvigorire delle lotte fra pastori e coltivatori, la cui fine costituì a lungo l’obiettivo centrale dell’operato della Società Agraria.
A domani,
Flavia Mancini