I processi di superamento della feudalità si scontrano in Europa con i diritti consolidati di ceti sociali importanti che tendono a tutelarsi. Il caso della Commissione Feudale del Regno di Napoli è emblematico
Commento di Desirée De Michelis Quando si parla di Rivoluzione Francese, un tema molto importante è quello della “eversione della feudalità”. Nella notte del 4 Agosto 1789, in Francia, vennero aboliti i privilegi feudali (senza indennità): venne così definitivamente sancita la rottura con l’Ancien Regime. Iniziò, possiamo dire, un periodo di distribuzione della ricchezza: essa passò dai nobili e dal clero nelle mani della borghesia. Il processo di eversione passò poi ai cd regni satellite e seguì un percorso particolare nel Regno di Napoli. Tra il 1806 ed il 1808, Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e fratello di Napoleone, abolì la feudalità nel Regno di Napoli emanando le cd “Leggi eversive della feudalità. L’art 1 della legge 130 del 2.8.1806 recitava espressamente “La feudalità, con tutte le sue attribuzioni, resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali ed i proventi che vi siano annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili”. La particolarità della “eversione della feudalità” compiuta in questo “regno satellite” fu rappresentata dalla introduzione di un principio di indennizzo per il signore che veniva privato dei suoi beni feudali. Una sorta di strumento di “pace sociale” che permetteva al signore di ricevere un piccolo compenso per la perdita subita. Il processo di “recupero” dei beni feudali, poneva però due problemi pratici: 1.riuscire ad individuare geograficamente tali beni con precisione (ed in questo giocò un ruolo fondamentale il famoso Catasto del Regno di Napoli; opera dei Borbone) 2. trovare una soluzione per i diritti (rectius: gli usi civici) vantati dalle popolazioni locali su quei beni in base al principio “ubi feuda, ubi demania”. In altre parole, su molti beni feudali, al momento dell’inizio del processo di “eversione della feudalità” coesistevano, insieme ai diritti del nobile proprietario, anche diritti da parte delle popolazioni locali: i cd usi civici (es il pascolativo, il legnatico, il fungatico, etc..). Stabilire con legge che i proventi di tali terre sarebbero andati da quel momento in poi alla Sovranità poneva dunque un problema con le popolazioni locali. L’11 Dicembre 1807 venne istituita La Commissione Feudale, un Tribunale speciale per giudicare delle liti tra i Baroni e le Municipalità nate a seguito dell’abolizione della Feudalità ma soprattutto, a monte, per procedere alla individuazione e poi ripartizione dei territori feudali. Nei primi tempi, l'attività della Commissione non sembrò essere incisiva. Con l’ascesa al trono di Gioacchino Murat i suoi membri cominciarono a fare pressioni sui municipi affinché reclamassero i loro diritti nei confronti degli ex-feudatari. I risultati furono sorprendenti: Winspeare, il suo presidente, italiano al di là del suo nome, nella sua opera Storia degli abusi feudali, ricorda in particolare come la Commissione esaminò e risolvette, nel giro di poco meno di tre anni, ben 1395 vertenze in ordine ai diritti feudali. L' attività della Commissione si protrasse fino al 1º settembre 1810. In quattro anni l'organismo studiò oltre trecentomila processi ed emise oltre tremila sentenze, riunite in 97 volumi dal titolo "Bollettino delle sentenze della Commissione feudale", dichiarato ufficiale con decreto 26.9.1836.
Non so se può interessare ma inserisco anche una spiegazione sugli usi civici che ho trovato su internet (questa la fonte : http://www.sbordone.it/cosa_sono_gli_usi_civici.html)
Gli “usi civici" sono i diritti spettanti a una collettività (e ai suoi componenti), organizzata e insediata su un territorio, il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque. Il corpus normativo di riferimento è costituito, principalmente, dalla Legge dello Stato 16/6/1927, n. 1766 e dal relativo Regolamento di attuazione 26/2/1928, n. 332; inoltre, dalle successive norme (nazionali e regionali) in materia di usi civici. La Legge n. 1766 indica due diverse tipologie di diritti che possono fare capo ad una popolazione:
• i diritti di uso e godimento su terre di proprietà privata; • il dominio collettivo su terre proprie.
I primi sono soggetti a liquidazione. I secondi che abbiano destinazione silvo-pastorale sono invece destinati ad essere fortemente valorizzati e sono sottoposti alla normativa di tutela dell´ambiente e del paesaggio, mentre quelli a vocazione agraria sono destinati alla privatizzazione. Con il trasferimento delle funzioni amministrative statali alle regioni si è operata la scissione soggettiva tra le competenze tutte originariamente spettanti ai commissari regionali: le attribuzioni amministrative sono transitate alle regioni; ai primi sono residuate dunque unicamente i poteri giurisdizionali in ordine alle controversie sulla esistenza, natura ed estensione dei diritti civici.
I diritti collettivi su terre private sono caratterizzati dalla imprescrittibilità (e cioè dalla irrilevanza del non uso) e possono avere per oggetto le diverse utilità offerte dalla terra, quali il diritto di pascolare, di raccogliere legna, di seminare, di giuncare, di cacciare, di raccogliere erbe e ghiande, di pescare. La Legge n. 1766 precisa che sono considerati usi civici i diritti di vendere erbe, stabilire i prezzi dei prodotti, far pagare tasse per il pascolo e altri simili su beni dei privati. Non sono, invece, diritti civici le consuetudini di cacciare, spigolare, raccogliere erbe e simili, le quali, non essendo soggette a liquidazione, rimangono in esercizio finché non diventino incompatibili con la migliore destinazione data dal proprietario al fondo
Il presupposto logico della liquidazione risiede quindi nell´accertamento dell´esistenza, dell´estensione e nella valutazione degli usi stessi. A tale accertamento provvede la Regione sulla base di denuncia di parte, la quale assolve alla funzione dichiarativa di far conoscere gli usi esercitati o che si pretende di esercitare. La dichiarazione è necessaria esclusivamente per gli usi gravanti su terre private e non già invece per le terre comuni gravate, le quali non sono soggette a liquidazione, ma solo eventualmente a quotizzazione. (continua)
La Legge n. 1766 prevede che i diritti civici su terre private siano liquidati. La liquidazione consiste nella trasformazione della comproprietà tra proprietario e collettività in proprietà per quote, delle quali una viene attribuita alla comunità e l´altra resta al proprietario in dominio libero ed esclusivo. Una volta individuata l´estensione delle quote di proprietà spettanti, rispettivamente, al proprietario e alla collettività, esse vengono loro assegnate in natura ovvero per equivalente tramite un canone di natura enfiteutica a favore della comunità.
La liquidazione può avvenire secondo due sistemi: • liquidazione con scorporo: tale sistema dovrebbe essere quello ordinario. La Legge n. 1766 stabilisce le modalità da seguire per determinare le quote; • liquidazione con canone: la Legge n. 1766 stabilisce, infatti, che sono esentati dalla divisione i terreni che abbiano ricevuto dal proprietario migliorie sostanziali e permanenti e i piccoli appezzamenti non raggruppabili in unità agrarie; in tal caso, i fondi sono gravati da un canone annuo di natura enfiteutica a favore del comune in misura corrispondente al valore dei diritti.
Le terre d´uso civico sono, incommerciabili e inusucapibili; la legge prevede, tuttavia, la possibilità per gli occupatori abusivi di legittimare la loro posizione per il tramite di una complessa procedura amministrativa di sanatoria, la quale ha l´effetto di trasformare in allodio il terreno d´uso civico illecitamente detenuto. Le terre d´uso civico abusivamente occupate possono essere legittimate in presenza di quattro condizioni: • che l´occupatore abbia apportato migliorie sostanziali e permanenti; • che la zona occupata non interrompa la continuità del demanio; • che l´occupazione duri da almeno dieci anni; • che non si tratti di terreni classificati come bosco o pascolo permanente.
La legittimazione avviene tramite l´imposizione sul fondo di un canone di natura enfiteutica a favore del Comune o della associazione.
Al fine di accertare quali terre d´uso civico siano state oggetto di abusiva occupazione, la Regione può disporre, per il tramite del perito demaniale, la ricognizione e la individuazione dei confini della proprietà collettiva, in base a documenti e piante e, in mancanza di documenti originari, sulla base dei dati dei catasti antichi e recenti; successivamente procede a rilevare i possessi interni al confine e distingue i possessi legittimi da quelli abusivi. In presenza di occupazioni abusive, il perito verifica la sussistenza dei requisiti per la legittimazione e in caso affermativo determina il canone; in caso negativo, invece, determina la misura dei frutti percetti e propone alla Regione la reintegra.
La titolarità sostanziale dei diritti di uso civico spetta alla comunità di abitanti. Tuttavia, nel vigente ordinamento la comunità in quanto tale, non è in grado di esercitare le situazioni giuridiche di cui è in astratto titolare, non essendo dotata di personalità giuridica. Al fine di consentire ai residenti di agire validamente nell´ordinamento, sono state individuate alcune forme organizzative, atte a rappresentare la comunità, e alle quali sono imputate alcune facoltà di amministrazione che non possono essere esercitate dai singoli componenti del gruppo. All´ente gestore, tuttavia, non spetta alcun diritto sui beni medesimi; esso rappresenta unicamente la collettività e garantisce la coesistenza del diritto dei “cives”, attraverso poteri e facoltà di amministrazione.
Il commissariato per la liquidazione degli usi civici e la legge quadro sugli usi civici del 1927: Con il termine di uso civico si indica una forma di proprietà collettiva nata in età antichissima che si è andata affievolendo nel corso degli anni con la nascita del concetto di proprietà individuale. Gli usi civici sono, infatti, un diritto appartenente ad una collettività esercitato su un terreno in modo tale da ottenere benefici utili alla sussistenza della popolazione stessa. Essendo diventata sempre minore l’importanza dell’agricoltura nell’economia del paese ai fini della sussistenza della popolazione, il concetto di uso civico è mutato assumendo sempre più l’accezione di vincolo. ( se qualcuno fosse interessato a leggere la legge ecco un link utile : http://www.regione.lazio.it/binary/agriweb/agriweb_normativa/legge_n_1766_del_16_06_1927.1200651815.pdf ) Nel 1927 le servitù collettive gravanti sulle proprietà fondiarie,dette anche usi civici erano viste con un particolare sfavore, come un retaggio medioevale che impediva lo sviluppo dell'agricoltura moderna. Al commissario spettavano dunque la tutela degli usi civici, la risoluzione dei conflitti su di essi, sui demani comunali e i domini collettivi, nonché la liquidazione degli usi civici su terre private, sulla destinazione delle terre di originaria appartenenza di comunità o pervenute a comuni, frazioni, associazioni in seguito ai vari procedimenti previsti dalla stessa normativa. Ecco perché venne prevista l'istituzione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (istituito appunto dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 )al quale venne affidato il compito precipuo di liquidare gli usi demaniali e civici insistenti sui terreni privati mediante la cessione alle comunità utenti di una porzione delle terre gravate; lo scopo del legislatore era dunque l'affrancazione dei fondi, con forti poteri inquisitori sia di tipo giurisdizionale che amministrativo. Il modello cui il legislatore del 1927 ha fatto riferimento era quello dei Commissari ripartitori istituiti, nel Regno di Napoli, nel quadro dell'eversione della feudalità, a partire dall'inizio del XIX secolo. Diversa, invece, è la destinazione data dalla legge 16 giugno del 1927 ai diritti civici esercitati sulle terre comunali e frazionali, che devono essere riordinati e conservati se dette terre abbiano natura silvo-pastorale. In tal caso, le terre restano soggette ad un regime di inalienabilità, indivisibilità simile a quello delle terre del demanio pubblico, e tutelate anche nei loro aspetti naturalistici da un vincolo di destinazione. Nel caso, invece, in cui le terre siano convenientemente utilizzabili per le colture agrarie, si prevedeva la dazione delle stesse in enfiteusi ai coltivatori. Con l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario negli anni settanta, venne deciso il trasferimento dei poteri amministrativi del Commissario a questi nuovi enti locali, lasciando, intatto il potere giurisdizionale, con il DPR 24 luglio 1977 n. 616. Nel 1993, l'articolo 5 della legge n. 491, trasferisce le competenze in materia di Commissariati agli usi civici esercitate dal Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste al Ministero della Giustizia, per la soppressione del primo discastero in seguito a referendum. Resta comunque in vigore, per le parti non modificate dalle norme citate, la legge 1766 del 16 giugno 1927.
..continua.. La struttura dei Commissari è parificata a quella di sezione specializzata di Corte d'appello, ove ha sede. I commissari, infatti, sono magistrati con grado non inferiore a quello di Corte d'Appello. Le sentenze dei Commissari agli usi civici possono essere appellate esclusivamente di fronte: - alla Sezione specializzata per gli usi civici della Corte d'Appello di Palermo, se provengono dal Commissariato per la Sicilia; - alla Sezione specializzata per gli usi civici della Corte d'Appello di Roma, se provengono dagli altri tredici Commissariati. La competenza territoriale dei Commissariati, che ha subito diverse modifiche dal tempo della loro istituzione, coincide oggi, a seconda dei casi, col territorio di una, due o tre Regioni. A norma dell'art. 66 del DPR n. 616/1977, le funzioni amministrative già del Commissario agli Usi Civici sono trasferite alle Regioni. Da tale data esse non sono più esercitate dai Commissari, con la sola eccezione del Commissario di Trieste. In alcune regioni è in atto il rilancio dell'istituto, rivisto come una possibilità di un miglior utilizzo dei beni demaniali, non più inteso solo in senso di fonte di reddito, ma anche come modo di conservazione dell'ambiente e dei valorizzazione delle tradizioni del mondo rurale. Questa legge,dunque, inserisce i beni e diritti delle popolazioni (proprietà e diritti collettivi), in un regime di gestione programmata a destinazione vincolata e diversificata secondo la vocazione dei beni. Distingue due categorie di beni: - patrimoni silvo-pastorali, gestiti a fini produttivi e di conservazione ambientale in base a piani economici di sviluppo; - terre atte a coltura, ripartite in quote da assegnarsi in enfiteusi agli aventi diritto. Molto importante risulta l’art.11 di questa legge in quanto comprende nel regime della legge del 1927 sia i beni collettivi originari, intendendo per tali i beni delle comunità di abitanti organizzate stabilmente in un territorio e le terre acquisite attraverso ogni forma di possesso collettivo, che i beni assegnati ai comuni, frazioni od associazioni agrarie per effetto delle operazioni di sistemazione delle terre e di liquidazione dei diritti di cui all'art. 1 stessa legge e normative anteriori. Al fine di risolvere una questione sorta negli ultimi decenni del sec. XIX circa la natura dei beni della collettività intestati all'ente esponenziale (comune) e destinati all'esercizio degli usi, il legislatore nazionale del 1927 ha sottoposto allo stesso regime tutti i beni posseduti dai comuni (e frazioni) su cui si esercitano gli usi, comprendendo così tra le terre collettive anche quelle gravate da usi che fossero comunque nel possesso del comune. Le terre collettive anteriormente alla legge del 1927 erano indicate con termini diversi nelle varie località e regioni: in genere demani universali nel sud, altrove, soprattutto negli ex Stati pontifici, proprietà o domini collettivi, in altre zone d'Italia terre comuni, comunanze, comunaglie, e regole e vicinie nell'arco alpino, ecc.
..continua.. Per molto tempo tale argomento è stato trattato solo marginalmente dagli storici del diritto ed è stato generalmente sottovalutato dai giuristi, in giurisprudenza tuttavia si è sempre tenuto presente il rapporto universitas civium — intesa come comunità di abitanti organizzata in un territorio — ed ente-comune quale successore della prima: ed anche quando la gestione dei beni pubblici è passata al comune, si è mantenuta distinta la gestione dall'appartenenza riconosciuta sempre in capo alla collettività. Nella dottrina pubblicistica più recente si nota invece un interesse diverso per la categoria delle proprietà collettive, di gruppi o comunità originarie di abitanti insediate in un territorio (le antiche comunità di villaggio) cui si riconosce autonomia ed uno specifico regime mantenutosi fino all'ordinamento attuale. In zone determinate, per lo più del centro nord, si sono mantenute anche gestioni patrimoniali autonome che col tempo si sono trasformate sempre più in forme organizzate chiuse di membri unite dal vincolo familiare o da requisiti di professionalità o di incolato, rette da propri statuti e consuetudini. Anche se la legislazione del 1927 ha cercato di unificare tutte le gestioni collettive in un solo regime a carattere pubblicistico, le comunità a carattere più chiuso ed esclusivo hanno rivendicato spesso una struttura ed origine privatistica sul modello dell'associazione agraria (comunione familiare nei territori montani) che mal si conviene alle origini e titoli costitutivi delle stesse organizzazioni. La tesi circa la natura privatistica di questi gruppi è stata tenacemente sostenuta da una parte della dottrina ed ha portato in epoca recente al riconoscimento legislativo di forme autonome di gestione che pur tuttavia ne ha lasciato integro il regime di inalienabilità. Caratteristica delle terre collettive è stato ed è tuttora il particolare regime di indisponibilità e di destinazione vincolata ai bisogni primari della comunità di abitanti (art. 12, 2° co., 1.1766/27).L'inalienabilità dei patrimoni delle popolazioni ha avuto spiegazioni diverse: nelle zone ad influenza germanica la si è ritenuta derivata dalla concezione stessa della proprietà collettiva: gli scrittori meridionali, considerando il passaggio storico universitas civium - comune, risalirono al principio di indisponibilità proprio delle terre pubbliche e ne trovarono l'origine nella costituzione di Leone Augusto «de vendendis rebus civitatum» inserita nel codice giustinianeo. La giurisprudenza ha confermato lo sforzo unificatore della dottrina e ha recepito il principio della indisponibilità dei beni civici col massimo rigore permettendone così la conservazione. Di fatto si è verificata — già nel corso dell'800 fino ad oggi — una notevole dispersione dei patrimoni collettivi rispetto alla loro antica consistenza; anche se ne residuano estensioni ingenti, il fenomeno è veramente impressionante e ciò non per difetto di norme, ma per le continue occupazioni di terre da parte dei singoli facilitate dal difetto di gestioni utili e dalla scarsa tutela di questi beni da parte degli organi gestori. Il regime di indisponibilità assoluta persiste in pendenza delle operazioni di verifica delle terre sottoposte al regime di legge, verifica che si conclude con l'atto di assegnazione a categoria in base a piano di massima, mentre per i beni produttivi essa è mantenuta fino alle operazioni di quotizzazione e cessione delle quote in enfiteusi agli aventi diritto.
continua.. Con l'assegnazione a categoria — definito atto di accertamento costitutivo — il demanio civico perde le sue caratteristiche di terra collettiva quale «compendio di beni in proprietà collettiva di una comunità di abitanti» e si converte, secondo le finalità della legge, «in proprietà collettiva a destinazione pubblica ovvero in proprietà privata per le quote di terra a vocazione agraria» . Ne consegue che l'assegnazione a categoria condiziona l'applicazione della nuova normativa di gestione ai beni delle popolazioni: mentre le terre produttive del secondo tipo ( ovvero le terre atte a coltura, ripartite in quote da assegnarsi in enfiteusi agli aventi diritto ) sono destinate alla privatizzazione e cioè ad essere ripartite in quote, secondo piani tecnici di sistemazione fondiaria o di avviamento colturale ed assegnate a titolo di enfiteusi agli utenti, le terre del primo tipo(boschi e pascoli permanenti) acquisiscono un particolare regime a destinazione pubblica: la destinazione è vincolata alla produzione e/o conservazione ambientale e la gestione è finalizzata alla destinazione secondo piani economici e regolamenti degli usi formati ed approvati a norma della legge forestale 30 dicembre 1923, n. 3267. Molto interessante appare anche la decisione presa dalla Corte costituzionale che ha ritenuto legittima la istituzione di parchi regionali sui territori di demanio civico; interessante perché riconosce «per i beni silvo-pastorali la 'subordinazione' della 'destinazione pubblica all'utilizzazione come fattori produttivi, impressa ad essi dalla 1. del 1927 ', nel nuovo ordinamento costituzionale, all'interesse di conservazione dell'ambiente naturale, in vista di una utilizzazione, come beni ecologici, tutelato dall'art. 9, 2° co., Cost.».Il giudice costituzionale ha ritenuto anche non necessario il mutamento di destinazione per l'inserimento delle terre civiche in un parco o in una riserva naturale. La sentenza sembra non essere stata condivisa nella parte in cui considera di natura privatistica i diritti civici senza sottolinearne la specificità di diritti reali di godimento attribuiti ed esercitati dai soggetti «uti singuli et uti cives», cioè dai singoli in quanto facenti parte del gruppo o comunità insediata nel territorio. E ciò sulla bese del fatto che trascurare questo aspetto significa snaturare l'intero istituto nella sua origine e natura giuridica.
continua.. La necessità di tutelare i patrimoni collettivi residui e non trasformati irreversibilmente dall'intervento dell'uomo, ha indotto il legislatore nazionale ad estendere all'intera categoria dei diritti e beni civici delle comunità locali (impropriamente definite « aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici ») il vincolo di tutela paesaggistica. Con l'includere i territori a gestione collettiva nell'ambito dei beni di interesse ambientale e paesaggistico, il legislatore statale ha riconosciuto il ruolo essenziale che le gestioni delle comunità locali hanno avuto nella storia e conformazione del paesaggio e la necessità di conservarle per il contributo dato alla « salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio » . Anche il giudice costituzionale, in una serie di sentenze, ha giustificato il mantenimento degli speciali poteri di impulso d'ufficio riconosciuti ai commissari per gli usi civici, riferendosi all'interesse generale della collettività alla conservazione degli usi civici in funzione di difesa ambientale. Il vincolo ambientale, se ha contribuito a creare un nuovo interesse intorno a questi antichi diritti, non ha trovato lo stesso favore e consenso tra le comunità locali e gli amministratori dei patrimoni collettivi, abituati a considerare questi beni soltanto come possibili fonti di reddito per i bilanci comunali e degli enti.Bisogna convenire con gli utenti e con i gestori locali su di un concetto di base: il diritto civico storicamente non è stato mai inteso od utilizzato come un vincolo; al contrario, esso era fonte di vita per i cives e, nello stesso tempo, la presenza del civis sul territorio ne costituiva il maggior fattore di difesa e conservazione. Invece i vincoli paesaggistici sono stati sentiti dalle comunità locali come una costrizione, nei limiti in cui essi vengono a comprimere gli antichi diritti ed il loro esercizio in conformità delle norme statutarie e consuetudinarie (ne è prova la conflittualità continua con gli enti - parco entro i perimetri tutelati). (In passato, negli anni 80’, c’è stato un fortissimo contenzioso tra i Comuni d’Abruzzo all’interno del perimetro del Parco naz. d’Abruzzo e l’Ente – Parco sulla gestione dei demani boschivi e pascolivi delle comunità; anche le comunanze agrarie all’interno del Parco naz. dei Monti Sibillini hanno reagito con ricorsi avverso la loro inclusione nel perimetro del Parco. Anche l'assenza dei rappresentanti delle comunità locali all'interno della Comunità del parco è segno dello spregio dell'ordinamento centrale nei confronti delle stesse comunità e dei loro diritti sul territorio). In realtà, i vincoli paesaggistici e la maggiore rigidità della normativa non possono risolvere i molti problemi che stanno alla base della crisi dell'istituto e che sono dovuti alle nuove e mutate necessità della società nei suoi vari contesti (urbano, rurale, terziario, industriale, etc.). E solo studiando un nuovo e più efficace modello di gestione, che si può arrestare l'attuale processo di disgregazione dei patrimoni delle collettività, ma di questo tratteremo alla fine (mondo moderno).
continua.. La destinazione dei beni della prima categoria (patrimoni silvo-pastorali, gestiti a fini produttivi e di conservazione ambientale in base a piani economici di sviluppo) non è rigida ma può essere variata in relazione alle esigenze contingenti della collettività, ad esito di un procedimento tecnico-amministrativo di competenza regionale, secondo una ratio derivata dagli precedenti ordinamenti. Ove la nuova destinazione venga a cessare, il decreto di autorizzazione prevede il ritorno delle terre alla destinazione originaria o ad altra da stabilirsi. II regime di indisponibilità di questi beni può essere derogato solo in casi eccezionali (per terre residue o marginali ovvero inidonee in assoluto a fini di legge) o — secondo la giurisprudenza — per realizzazioni di finalità di pubblico interesse ed è regolato da una normativa assai restrittiva (art. 39 r.d. n. 332), interpretata con criteri rigorosi dalla giurisprudenza che ne ha spesso equiparato gli effetti a quelli della demanialità. Nelle molte pronunce di nullità assoluta di vendite non autorizzate, si è stabilito il principio che l'alienazione può essere consentita solo se ne ricorrano effettivamente i presupposti di legge e sempre dopo il compimento della verifica e l'assegnazione a categoria.La Corte costituzionale ha definito il regime di inalienabilità dei beni di demanio civico come un regime di «alienabilità controllata», ammettendo la possibilità anche di assoggettamento dei beni civici ad espropriazione forzata. II fenomeno delle vendite di terreni di demanio civico non assegnati a categoria ha assunto soprattutto negli anni '60-'80 dimensioni preoccupanti. Al fine di evitare le rigorose conseguenze della nullità assoluta di tali vendite — beninteso quando fossero state autorizzate dall'Autorità competente — è intervenuto in alcune regioni il legislatore con norme di diritto transitorio: cosi in Abruzzo la 1. reg. 3 marzo 1988, n. 25 attribuisce al Consiglio regionale il potere di provvedere alla convalida delle autorizzazioni all'alienazione delle terre civiche non previamente assegnate a categoria, quando gli atti di alienazione siano stati stipulati e registrati anteriormente all'entrata in vigore della legge. Il Consiglio regionale è tenuto a valutare l'interesse pubblico delle autorizzazioni da convalidare. La norma transitoria — giustificata dagli inammissibili ritardi ed omissioni degli uffici nella definizione delle procedure di classificazione dei terreni civici — è stata considerata legittima dalla C. cost. in diverse sentenze e sotto diversi aspetti (sentenze 26 gennaio 1990, n. 31; 25 maggio 1992, n. 221, e 27 maggio 1992, n. 237). Morena Sicignano
Volevo riportare il punto di vista di Grossi riguardo la proprietà collettiva. Grossi riprende la definizione di Cattaneo per cui la proprietà collettiva è “un modo diverso di possedere”. è un’anomalia che si distacca dal modello, questa appartiene ad un canale parallelo ma originale rispetto alla proprietà: nasce prima dello stato italiano e delle certezze illuministiche che si basavano su una proprietà individuale di stampo romanistico. Per Regnoli la proprietà collettiva è “perturbatrice dell’ordine morale e della pubblica tranquillità “,Grossi trova una giustificazione per questa affermazione nel periodo in cui vive: nel 1865 prevale il pensiero liberista fondato su una concezione individualistica della proprietà che ha carattere costituzionale. Grossi invece segue la scia di Bolla che dichiara inutile misurare la proprietà collettiva con un metro statuale, tipico della cultura giuridica, intessuto nella certezza del diritto romano. La legge del 1927 ha creato, per Grossi, tre guasti: • ha reso uguali tutti gli usi civici senza distinzione; • ha preso come modello di uso civico quello meridionale, escludendo le peculiarità del modello settentrionale; • si basa su un modello pubblicistico di uso civico. Grossi distingue le proprietà collettive: quelle autentiche sono un ordinamento giuridico primario (vivere associato) mentre quelle ridotte non sono altro che collettivismo fondiario. Secondo Grossi con l’illuminismo si abbandona il pluralismo e i giuristi restano legati all’apparato autoritativo dello stato; tutto ciò che si discosta è pseudo diritto. Lo stato è unico ma la società civile produce pluralisticamente diritto; la proprietà collettiva è un istituto che viene dal basso e non è imposto dall’alto: è un costume giuridico che deve essere rispettato attraverso la minima produzione di leggi da parte dello stato.
Tra i ceti sociali che tendono a tutelarsi da quest’eversione feudale troviamo sicuramente quello del clero. Un’analisi attenta a riguardo è contenuta nel libro del professor Cardia, Le sfide della Laicità. Egli parte dal momento in cui nell’800, su ispirazione del fenomeno portato dalla rivoluzione francese, conosciuto come separatismo, anche in Italia il ceto ecclesiastico viene man mano svuotato dei propri privilegi. Infatti vediamo subito nel 1850 con le Leggi Siccardi l’abolizione dell’istituto del foro ecclesiastico. Questo permetteva che i chierici non potessero essere giudicati dal tribunale civile absque pontificis permissu, bensì che il vescovo fosse il loro giudice. Il privilegio del foro trovava il suo precedente più antico addirittura nell’episcopalis audientia di Costantino, riconoscimento della competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici su alcune materie. Dunque si arrivò all’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge: non vi è più l’esistenza di tribunali ecclesiastici. Poco dopo vengono inoltre aboliti gli ordini religiosi ed il loro patrimonio viene incamerato dallo Stato. Sono proprio lo Stato italiano, i Comuni e gli altri enti pubblici a diventare proprietari di migliaia di edifici di culto. Verrà successivamente tolto valore anche al matrimonio religioso e ci sarà una laicizzazione della scuola (nascita scuole pubbliche che dipendono esclusivamente dallo Stato).
Il fenomeno della feudalità: Il fenomeno della feudalità, deve anzitutto cercare le origini strutturali dell’istituto per comprenderne a pieno la nascita e soprattutto le grandi difficoltà che si dovettero superare per strappare di mano ai feudatari i «loro» feudi .In realtà non è da credere che l’eversione della feudalità, in tutti i suoi aspetti sia stata un fenomeno tale da stravolgere in maniera dirompente il sistema baronale. La nobiltà feudale fu rispettata e la proprietà feudale, originariamente costituita dalla detrazione del demanio universale – accantonati pochi usi civici, e solo poco più importanti appezzamenti, in favore della popolazione dei Comuni – passò quasi tutta in libero dominio ai feudatari. I baroni furono privati in realtà della giurisdizione, dei diritti proibitivi e di alcune prerogative fiscali. Ebbero in libera proprietà quei terreni del feudo senza contestazione goduti e amministrati in maniera esclusiva (difese legittimamente costituite, terreni chiusi e migliorati). Continuarono a riscuotere decime e censi, ma quasi tutte le prestazioni divennero redimibili e talora furono ridotte o estinte. In tale maniera soprattutto, fu creata – o per lo meno si volle creare, ma senza esito positivo – una piccola e media proprietà contadina interamente libera o facilmente riscattabile. A causa poi dei numerosi stravolgimenti in Europa vennero emanati molti provvedimenti liberali, tra questi va citata la legge del 2 Agosto , 1806, emanata da Giuseppe Napoleone Re di Napoli e di Sicilia, questa segnò in parte la caduta dell’impero feudale. In realtà si volle l’abolizione non solo sulla spinta delle leggi e della dominazione francese, per attuare in tutta l’Europa i fervori rivoluzionari, ma anche perché la feudalità – o per meglio dire il sistema feudale – provocava danni enormi ad una molteplicità di soggetti. Le popolazioni dei territori baronali, infatti, non solo subivano le angherie tributarie dei feudatari, ma vedevano i demani feudali chiusi perché destinati a difese. Le Università vantavano crediti ingenti dai feudatari che questi continuavano ad ignorare, arrivando, a volte, ad occupare parte dei demani delle stesse Università, con lo scopo di alienarli. Ma, forse, a soffrire i mali peggiori era il Demanio statale, che, a causa di una burocrazia troppo lacunosa, e spesso compiacentemente indolente, permetteva ingenti distrazioni dal suo patrimonio. Giulia Onesti
Volevo chiedere un chiarimento : rileggendo gli appunti della lezione di lunedì 4 Aprile, in cui il Professore ha introdotto il problema della eversione della feudalità, ho appuntato un riferimento al Leviatano di Hobbes, in merito a quale argomento era stato citato? sempre riguardo la Feudalità? Giulia Onesti
Giulia,durante la lezione di lunedì abbiamo analizzato alcuni aspetti del Droit Intermediaire come pensiero giuridico fondamentale per istituti e mentalità successive ,come diritto la cui natura è ideologica :laicizzazione del matrimonio,l’eversione della feudalità. Ma inizialmente ,facendo un discorso generale, il Professore ha sottolineato come la forza di questo diritto ideologico sia stata nell’immediato dopo-Termidoro ridimensionata dall’atteggiamento mentale dei giuristi napoleonici. Riporto qui di seguito un passaggio tratto da Cavanna “Onora il padre”: “Quanto alla cultura del dopo termidoro,questa risale addirittura ad Hobbes … I giuristi del Direttorio e del Consolato sono sopravvissuti ai giorni della carrette,della Legge sui sospetti,del terrore posto all’ordine del giorno,dell’affossamento del diritto nel moralismo totalitario e sacerdotale di Robespierre.Ora si muovono tra le macerie della legalità e dell’ordine civile in un clima di disorientamento morale. Per molti di loro il ritorno alla natura predicato dalla retorica della dittatura giacobina c’è stato,purtroppo, davvero .E ha rivelato ,appunto,l’autentica natura dell’uomo:che non è quella del selvaggio roussoviano,ma addirittura quella lupesca del Leviathan. Uscire dalla crisi politica e morale,ricostruire i legami forti,i quadri stabili di una società che deve ridiventare vivibile … E se l’uomo non è intrinsecamente buono (Hobbes aveva osservato che “un figlio emancipato o uno schiavo affrancato temono meno di prima colui che essi vedono spogliato del suo potere perché l’onore e la riverenza interiori tributati a una persona altro non sono che una certa stima del suo potere”),altruista,capace di affetti disinteressati,lo si deve indurre a comportarsi come se lo fosse .Alla diagnosi di stampo hobbesiano si accoppiano le convinzioni filosofiche in voga:quelle dell’utilitarismo alla Helvetius ecc….”. Questo per dire che una volta individuato nell’interesse il movente delle azioni umane e nell’egoismo il movente che governa anche i rapporti più intimi come quelli familiari,il legislatore del codice civile francese se ne servirà per il bene comune.”La sua arte,la sua tecnica ingegneristica saranno quelle di far agire al meglio un uomo così artificialmente disciplinabile,facendo leva sulla sua natura calcolante(utilitarismo).Questo spiega la restaurazione napoleonica della patria potesta,il consenso parentale alle nozze,i limiti al divorzio… “ Monica
Grazie ora ho capito. Non comprendevo come fosse collegato con quello che stava dicendo il professore, probabilmente perchè per seguire non avevo scritto. Grazie ancora.
Per quanto riguarda la Legge quadro del 1927, ricordiamo l’opinione di Paolo Grossi, tratta dai Quaderni Fiorentini, 1990, n.19. Egli ha affermato che tale legge ha prodotto quattro guasti clamorosi: volle essere unitaria, nazionale realizzando un’artificiosa uniformità; non solo, ma costruì la norma generale sul calco della classica e sempre gloriosa legislazione medievale, senza tenere conto delle diversità locali. In merito Grossi parla di una veste aliena ed inidonea, perché raggruppò tutte le varie normative in un'unica mole, stringendosi sotto la dizione di Usi Civici. Con questi si riportavano le proprietà promiscue sotto il potere pubblico: una riduzione pubblicistica che il nostro giurista configura come una violenza legale. Ricordiamo che in quel periodo vigeva, largamente diffusa, l’idea del legislatore onnipotente, creatore di leggi giuste e ancora di più l’identificazione tra cultura ufficiale e cultura giuridica. Dunque il fenomeno dei diritti promiscui e delle proprietà collettive usciva dalla legge del ’27 quale prigioniero di un’armatura inidonea. Essa stabiliva dei Tribunali speciali (Commissioni degli usi civici) con il compito, se possibile, di sciogliere (liquidare) i diritti collettivi. Quando si accertava che gli abitanti di un villaggio avessero sempre usufruito di un bene, se questo bene era di proprietà del comune, veniva considerato demaniale. In questo caso si bloccava lo stato dei luoghi. Un blocco aggirato con l'indennizzo della proprietà grazie al distacco di una parte del bene, considerata demaniale, mentre restava l'utilizzo per l'altra parte patrimoniale. Ma quando erano le popolazioni ad avere diritti su beni privati, il privato poteva liquidarli dando una parte del bene al comune, bene demaniale. Quindi c’è un aumento della proprietà pubblica a favore di un’estinzione di diritti reali su cosa altrui.
Qui di seguito passaggi tratti da “Un aspetto dell’eversione della feudalità nel regno di Napoli:la soppressione delle corporazioni religiose e la vendita dei beni dello Stato” di P. Villani Estratto dalla Rassegna Storica del Risorgimento Anno XLIV – Fascicolo II – III – Aprile-Settembre 1957 Istituto Poligrafico dello Stato "Di solito, quando si parla di eversione della feudalità nel regno di Napoli,si fa riferimento alla legge del 2 agosto 1806 che aboliva la giurisdizione feudale,ordinava la divisione del demanio tra ex feudatari e comuni,riconosceva ai baroni la libera proprietà delle terre che rimanevano loro assegnate dopo la soddisfazione dei diritti dell’universalità dei cittadini. Ma l’eversione della feudalità si presenta come un ampio processo … di quel processo sono certamente aspetti considerevoli la soppressione degli ordini monastici,l’incameramento dei loro beni al Demanio,l’alienazione di essi a sostegno delle finanze del nuovo Stato e a favore dei sostenitori del nuovo regime. Certo è che mentre assai timide ed incerte furono le azioni del riformismo borbonico contro la feudalità laica,con maggiore energia si agì contro la feudalità ecclesiastica,come prova,tra l’altro,il concordato del 1741 che limitò le esenzioni e i privilegi goduti dai beni ecclesiastici e inibì l’accrescimento della manomorta. Nè si esitò a sopprimere monasteri e ad incamerarne i beni ed a venderli a privati quando improvvise esigenze richiesero di ricorrere a risorse straordinarie,come avvenne nel 1783 in seguito al terremoto di Calabria,con la formazione della Cassa Sacra.. Anche in questa direzione come in tante altre potrebbe sembrare che il governo dei Napoleonidi non abbia fatto altro che proseguire e condurre a fondo l’azione riformatrice dei Borboni.Impressione sostanzialmente fallace … la differenza fondamentale sta nel fatto che mentre i Borboni agirono molto empiricamente,senza chiarezza di prospettive,sospinti da circostanze,i Francesi avevano un programma … diretto alla creazione di un nuovo tipo di organizzazione statale. Sicchè alla soppressione degli ordini monastici concorsero,con i motivi immediatamente di ordine finanziario,motivi di natura ideologica che trovano espressione nel preambolo della legge ove si afferma,tra l’altro,che ormai gli ordini religiosi avevano assolto ed esaurito il loro compito e che ”l’amore delle arti e della scienza diffuso generalmente,lo spirito coloniale,commerciale,e militare han forzati tutti i governi d’Europa a rivolgere verso questi oggetti importanti il genio, l’attività ed i mezzi delle loro nazioni” . L’organicità dei piani di riforma francesi trova conferma anche nel fatto che l’incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici erano legati al provvedimento che richiamava allo Stato la percezione di tutti gli arrendamenti “di qualunque natura fossero e sotto qualunque amministrazione si trovassero”(legge 25 giugno 1806).Il sistema degli arrendamenti,vendita o appalto ai privati del diritto di riscossione delle pubbliche entrate,era anch’esso uno dei residui più scandalosi della vecchia amministrazione finanziaria,che si spiega colla confusa ed incerta distinzione tra ius publicum e ius privatum propria dei tempi e della concezioni feudali. Si cominciò con l’incamerare i beni degli ordini di S. Benedetto e di S. Bernardo,colpendo così i monasteri più ricchi. Neppure gli ordini mendicanti furono risparmiati e numerosi conventi furono aboliti con decreti particolari tra il Marzo 1807 e il Gennaio 1808. Il colpo definitivo fu arrecato dal decreto del 7 agosto 1809 che ordinava la soppressione di tutti gli ordini possidenti ,e delle congregazioni dei domenicani,dei francescani e dei teatini .Complessivamente ,durante il decennio furono soppressi più di 1100 conventi e monasteri.
Dopo la lezione di mercoledì, ho deciso di fare un excursus storico sulla successione testamentaria per individuarne le origini e le differenze nel periodo post-rivoluzionario francese, vedendo anche come questo ha influenzato le successive codificazioni della materia nei vari stati europei. Brevemente, partendo dall'origine, sappiamo tutti che la materia è particolarmente importante nella tradizione dell'antica Roma. Risale proprio all'antichità la convinzione giuridica che l'erede dovesse subentrare in "universum ius defuncti", cioé nel complesso dei rapporti giuridici del defunto senza alcuna distinzione fra i diversi bene o diritti. Si trattava sostanzialmente del trasferimento di tutte le situazioni giuridiche soggettive del defunto nelle mani dell'erede. I due termini di universitas e di successio risultano saldamente collegati tra di loro indicando, rispettivamente, il complesso patrimoniale concepito come unico e il semplice mutamento del suo titolare. Da notare, però, che mentre a Roma si concepiva solo la successione universale, nei paese germanici si intravedeva una frazione del patrimonio prevedendo più successioni universali all'interno di un unico patrimonio costituito da diversi bene e diritti. La semplicità della successione ab intestato deriva interamente dalla tradizione romana che individua tre gruppi di possibili eredi: heredes sui, adgnati e gentiles. La distinzione fra la successione a titolo universale ed a titolo particolare è probabilmente sorta nell' epoca di Giustiniano. Il perché la tradizione romana prevedeva tale forma di successione è da rinvenire nell'idea che il patrimonio individuale è legato alla necessità di mantenere la ricchezza all'interno della famiglia e nelle mani di un unico uomo invece di procedere alla sua frammentazione in base alla natura o all'origine del beni. Possiamo sottolineare che nell'esperienze giuridiche dell'Inghilterra, derivate dal diritto germanico, la common law individuava fin da subito una distinzione di eredità improntata sulla qualità del bene: land property ( la cui successione è dettata da disposizioni legali immutabili) e personal property ( influenzate dalla volontà del testatore).
Molti sono gli stati che nell'età intermedia, avevano ripreso la disciplina romana, abbandonata dopo la caduta dell'impero romano d'occidente, preferendola a quella di origine germanica. Ampia è stata però l'influenza che ha avuto in materia anche la Francia. Essa infatti era il paese europeo che si distaccò nettamente dalla tradizione romana e dal principio dell'unità del patrimonio nella parte del suo territorio in cui vigeva il diritto consuetudinario. Il code civil del 1804 infatti, dopo aver eliminato tale distinzioni, con l'art 732 sancì la vittoria del principio di unità di successione preceduta dalle parole di Merlin di fronte all'Assemblea Costituente il 20 novembre 1790 : 1° Egalité absolue dans le partages ab intestato; 2° Identité parfaite de tous les biens, sans distinction de meubles et d’immeubles, de propres et d’acquêts; 3° Représentation à l’infini en ligne directe, et jusqu’aux neveux seulement en ligne collatérale. Voilà, en trois mots, tout le système de la nouvelle législation qui vous est proposée. All'indomani della rivoluzione francese, tale successione inizia a ruotare intorno alla nozione di proprietà collettiva e a quella dell'uguaglianza. Per la prima volta vennero eliminate le distinzioni con riguardo al sesso maschile o femminile dell'erede e alla sua condizione sociale. La legge sembra prevedere uno stato di uguaglianza di tutti i cittadini nella successione testamentaria diminuendo la distinzione fra figli legittimi e naturali. Non bisogna però credere che Napoleone non mirasse ad esaltare la famiglia legittima. Ben presto egli adottò una serie di provvedimenti che disincentivarono le coppie di fatto, sfavorirono tutti coloro nati al di fuori della famiglia legittima prevedendo però che i figli naturali, se riconosciuti, avevano il diritto al mantenimento finché i genitori erano in vita e a un terzo dell'eredità che avrebbero ricevuto se fossero stati legittimi. Vediamo che tutta la disciplina, fin dall'antichità, ruota intorno alla nozione di proprietà privata come proprietà collettiva della famiglia o di un gruppo sociale più ampio.
Molto più difficile è determinare con certezza a quanto ammontasse il patrimonio incamerato dal Demanio. Ma non vi è dubbio che ,nonostante tutti gli sforzi,una parte di quei beni sfuggì all’amministrazione ;sparì come inghiottita da innumerevoli occultamenti,usurpazioni,appropriazioni favorite dalla umana impossibilità di inventariare ,verificare e prendere possesso in breve volgere del tempo di un patrimonio immenso,le cui proprietà no avevano sempre titoli perfettamente legittimi o facilmente reperibili e confini nettamente stabiliti. Un altro durissimo colpo era inferto dalla manomorta ecclesiastica;un grande complesso di proprietà fondiaria ,di fabbricati,di canoni e censi veniva mobilizzato ed immesso nel circolo della vita economica del paese…..nuovi proprietari e altri sistemi di conduzione e di amministrazione.Si è ben lontani dai rivolgimenti profondi che l’alienazione dei beni nazionali apportò nella distribuzione della proprietà della Francia degli anni rivoluzionari ,ma se si tien conto della tradizionale immobilità della vita economica dell’Italia meridionale ,specie nel possesso della terra e della conduzione agraria,e si tien altresì che questo notevole trasferimento di proprietà si attuava proprio negli anni in cui altri settori della vita della campagne erano messi in movimento dalle leggi eversive della feudalità,dalla quotizzazione dei demani comunali,dalla affrancazione di censi e canoni,non si potrà negare la grande importanza che l’alienazione dei beni dello Stato ebbe,non solo perché colpiva a fondo la manomorta ecclesiastica,ma anche perché contribuiva ad aprire nuove prospettive di sviluppo all’agricoltura e a creare nuovi rapporti di proprietà,ed alimentava quel fermento di vita nuova che è innegabile risultato dei vari provvedimenti attuati o almeno predisposti nel Decennio francese .Resta fermo però che in quel decennio si fece assai più che non nel periodo riformistico settecentesco e nei seguenti decenni dell’ottocento,nei quali in qualche caso si verificarono addirittura involuzione e regresso. E,per restare nell’ambito della specifica ricera,basti ricordare che nella Restaurazione non solo si restituirono alla Chiesa i beni non alienati,ma,rompendo con la stessa tradizione riformistica del Settecento,le si riconobbe il diritto di “acquistare nuovi possedimenti”(art 15 del Concordato),permettendo il ricostruirsi della manomorta e ponendo “le basi- come dice il Maturi- della futura ricostruzione economica,demografica e morale della Chiesa nel Regno delle Due Sicilie ” ( W .Maturi, Il concordato del 1818 fra la Santa Sede e le Due Sicilie , Firenze ,1929,p.118).
SCUSATE QUESTA è LA PRIMA PARTE!!!!!! Qui di seguito passaggi tratti da “Un aspetto dell’eversione della feudalità nel regno di Napoli:la soppressione delle corporazioni religiose e la vendita dei beni dello Stato” di P. Villani Estratto dalla Rassegna Storica del Risorgimento Anno XLIV – Fascicolo II – III – Aprile-Settembre 1957 Istituto Poligrafico dello Stato Di solito, quando si parla di eversione della feudalità nel regno di Napoli,si fa riferimento alla legge del 2 agosto 1806 che aboliva la giurisdizione feudale,ordinava la divisione del demanio tra ex feudatari e comuni,riconosceva ai baroni la libera proprietà delle terre che rimanevano loro assegnate dopo la soddisfazione dei diritti dell’universalità dei cittadini. Ma l’eversione della feudalità si presenta come un ampio processo … di quel processo sono certamente aspetti considerevoli la soppressione degli ordini monastici,l’incameramento dei loro beni al Demanio,l’alienazione di essi a sostegno delle finanze del nuovo Stato e a favore dei sostenitori del nuovo regime. Certo è che mentre assai timide ed incerte furono le azioni del riformismo borbonico contro la feudalità laica,con maggiore energia si agì contro la feudalità ecclesiastica,come prova,tra l’altro,il concordato del 1741 che limitò le esenzioni e i privilegi goduti dai beni ecclesiastici e inibì l’accrescimento della mano morta. Nè si esitò a sopprimere monasteri e ad incamerarne i beni ed a venderli a privati quando improvvise esigenze richiesero di ricorrere a risorse straordinarie,come avvenne nel 1783 in seguito al terremoto di Calabria,con la formazione della Cassa Sacra.. Anche in questa direzione come in tante altre potrebbe sembrare che il governo dei Napoleonidi non abbia fatto altro che proseguire e condurre a fondo l’azione riformatrice dei Borboni.Impressione sostanzialmente fallace … la differenza fondamentale sta nel fatto che mentre i Borboni agirono molto empiricamente,senza chiarezza di prospettive,sospinti da circostanze,i Francesi avevano un programma … diretto alla creazione di un nuovo tipo di organizzazione statale. Sicchè alla soppressione degli ordini monastici concorsero,con i motivi immediatamente di ordine finanziario,motivi di natura ideologica che trovano espressione nel preambolo della legge ove si afferma,tra l’altro,che ormai gli ordini religiosi avevano assolto ed esaurito il loro compito e che ”l’amore delle arti e della scienza diffuso generalmente,lo spirito coloniale,commerciale,e militare han forzati tutti i governi d’Europa a rivolgere verso questi oggetti importanti il genio, l’attività ed i mezzi delle loro nazioni” . L’organicità dei piani di riforma francesi trova conferma anche nel fatto che l’incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici erano legati al provvedimento che richiamava allo Stato la percezione di tutti gli arrendamenti “di qualunque natura fossero e sotto qualunque amministrazione si trovassero”(legge 25 giugno 1806).Il sistema degli arrendamenti,vendita o appalto ai privati del diritto di riscossione delle pubbliche entrate,era anch’esso uno dei residui più scandalosi della vecchia amministrazione finanziaria,che si spiega colla confusa ed incerta distinzione tra ius publicum e ius privatum propria dei tempi e della concezioni feudali. Si cominciò con l’incamerare i beni degli ordini di S. Benedetto e di S. Bernardo,colpendo così i monasteri più ricchi. Neppure gli ordini mendicanti furono risparmiati e numerosi conventi furono aboliti con decreti particolari tra il Marzo 1807 e il Gennaio 1808. Il colpo definitivo fu arrecato dal decreto del 7 agosto 1809 che ordinava la soppressione di tutti gli ordini possidenti ,e delle congregazioni dei domenicani,dei francescani e dei teatini .Complessivamente ,durante il decennio furono soppressi più di 1100 conventi e monasteri. CONTINUA NEL COMMENTO PRECEDENTE.....
Ho concentrato l'attenzione su "Storia degli abusi feudali" di Davide Winspeare, scusate la lunghezza, ho cercato di essere il più possibile concisa.
--
Con una serie di provvedimenti legislativi attuati progressivamente tra il 1806 e il 1808, è stata resa possibile l’abolizione del feudalesimo nel Regno di Napoli: si fa riferimento alle c.d. “leggi eversive della feudalità”, o “di eversione della feudalità”. L’atto che diede avvio a questa importantissima riforma, si riconduce formalmente a Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone, divenuto re di Napoli non appena il regno borbonico passò sotto l’influenza francese: a lui si deve la promulgazione, avvenuta il 2 agosto 1806, della “legge di abolizione della feudalità”, cui deve accompagnarsi il decreto dell’8 giugno 1807 sulla ripartizione dei demani e lo scioglimento delle promiscuità. La normativa in discussione prevedeva la restituzione alle rispettive sovranità di tutte le giurisdizioni e di tutte le proprietà assoggettate a tributi regi, ed era diretta essenzialmente all’accertamento di alcuni diritti imprescrittibili delle popolazioni. Per questo si rese necessaria, innanzitutto, una ricognizione dei beni demaniali, oggetto nel corso dei secoli di un processo di continua usurpazione. Diverso problema, era quello inerente ai diritti delle popolazioni locali, che coesistevano sui beni feudali in base al principio “ubi feuda, ibi demania”, e che condurranno, in seguito, al riconoscimento di usi civici. Un così significativo processo di riorganizzazione non poteva non comportare l’ergersi di un enorme contenzioso, tra popolazioni e baroni, ex feudatari. Così Giuseppe Napoleone, con decreto 11 novembre 1807, istituisce un organo, la Commissione Feudale, atta a dirimere le relative questioni (e, precisamente, “nel corso dell’anno 1808 (…) tutte le cause di qualunque natura tra Università e Baroni”). La Commissione, in circa diciotto mesi di lavoro - che si prolungherà fino al 1° settembre 1810 - e dopo aver esaminato circa trecentomila casi, arriverà ad emettere approssimativamente tremila sentenze, poi pubblicate su un periodico denominato “Bullettino delle sentenze emanate dalla Suprema Commissione per le liti fra i già baroni ed i comuni”, il cui indice di ben 900 pagine farà la sua comparsa nel 1859; le relative massime, per lo più ricognitive dei diritti delle popolazioni, saranno inoltre riconosciute come “monumenti di sapienza” da una Commissione ad hoc nominata, a seguito della Restaurazione, dal borbonico Ferdinando I. In realtà, l’attività della Commissione non sembrò portare, nei primi tempi, a risultati incisivi: è con l’ascesa al trono di Murat che i suoi membri, diretti da Davide Winspeare, inizieranno a spingere i municipi nel senso di un reale reclamo dei propri diritti nei confronti dei Baroni, e che la legislazione eversiva conoscerà una concreta esecuzione, con l’abolizione di tutti i diritti giurisdizionali e la divisione dei demani, ripartiti in modo da divenire libere proprietà. I risultati, come detto, non tardarono ad arrivare: proprio Winspeare, in “Storia degli abusi feudali”, ricorda le innumerevoli vertenze risolte con successo.
Pubblicata per la prima volta nel 1811, l’opera viene dedicata dal procuratore generale della Commissione al Sovrano, e riporta successivamente al frontespizio una frase tratta dalla prima delle “Epistole” di Boileau, indirizzata Al Re (“Ce sont là les exploits que tu dois avouer; Et c’est par là, grand roi, que je te veux louer”, ovvero “Questi sono i risultati che devi accettare; ed è per quelli, grande Re, che ti voglio elogiare”). Tale richiamo non sorprende, visto che già in apertura Winspeare si riferisce ai “mali della feudalità”, ed alle “vecchie piaghe del sistema feudale”, che il re avrebbe estirpato, liberando così la Nazione e riuscendo ove nessuno dei suoi predecessori era riuscito. L’autore ricorda le opposizioni alla riforma, “combattuta dai privati interessi di molti i quali mettendosi nel luogo della generalità sembrava che scambiassero la loro utilità particolare colla universale, e che riguardassero come prescritta la potestà di attentare contro alle loro prerogative”. La generosità del cuore del sovrano, si mostra inoltre, secondo Winspeare, nella volontà di lasciare ai posteri un’immagine della storia della feudalità del Regno di Napoli: “ (…) voglio che il quadro degli abusi passati e la storia degl’inutili sforzi fatti per correggerli facciano tacere le parziali rimostranze dell’interesse privato, e dieno a’ miei sudditi una nuova pruova della mia sollecitudine e de’ miei costanti sforzi per la loro felicità”. La storia degli abusi della feudalità, storia che abbraccia la vita pubblica e la vita privata delle nazioni, non significa nuda descrizione delle calamità implicite al sistema feudale, ma “esposizione della vita civile delle nazioni nel passaggio che esse hanno fatto dalla coltura alle barbarie, e nel ritorno da questo a quello stato”. I vari passaggi sono particolarmente evidenti nel Regno di Napoli, “il cui sistema di usi e leggi ne’ feudi è stato un’imitazione ed un misto di quelli d’Italia e di Francia”. Nella prefazione, Winspeare spiega l’intima struttura dell’opera, divisa in quattro libri, ognuno dedicato al racconto di un particolare “stato” della vita civile, tra quelli che hanno segnato dapprima il passaggio al sistema feudale e che ora, hanno condotto all’abbandono dello stesso. Il primo libro (intitolato “Dell’origine della feudalità e de’ suoi principali avvenimenti insino al IX secolo”) si concentra sul “primo stato de’ popoli d’occidente dopo l’invasione de’ barbari”, che non fu altro che “un composto degli usi e delle leggi delle nuove e delle vecchie nazioni insieme mescolate”, e un “informe ammasso d’avvanzi di colte istituzioni e di barbarie”; tratta dunque dello stato delle province d’Occidente prima e dopo le invasioni barbariche, fino ad arrivare al punto in cui “possono aversi per spiegate tutte le forze del sistema feudale”. Il secondo libro enuclea i mali della feudalità con riferimento alla vita pubblica delle nazioni, guardando ai governi che si sono succeduti nelle singole Nazioni ed esplicitando come l’aristocrazia feudale abbia preso il sopravvento rispetto agli stessi. Il terzo libro, ritenuto “parte principale dell’opera”, presenta un’esposizione dello stato delle leggi, degli usi e dei costumi di ciascuna nazione “durante i rigori della feudalità”, analizzando come tali cause abbiano inciso sulla formazione del diritto nazionale. L’ultimo libro elabora la fase del ritorno a “forme civili e alla coltura”, ma anche degli “avvanzi di usi e di costumi che esse (scil. le nazioni) hanno ritenuto del loro antico stato”. Di particolare interesse è l’introduzione (che consta, nella prima edizione, di circa un centinaio di pagine), nella quale Winspeare introduce il motivo conduttore che l’ha spinto a delineare una storia generale della feudalità, ovvero la situazione nel Regno di Napoli, in statu quo res erant prima della dominazione francese e della realizzazione della legislazione eversiva.
L’origine sistema feudale è vista quale prodotto della “rivoluzione che divise le province dell’Impero Romano, che spinse nuovamente l’Europa nel seno della barbarie, e che cancellò tutte le vestigie della coltura e delle leggi latine”. Si parla di un mostro uscito dalle foreste barbariche ed allevato dall’ignoranza per tredici secoli, finché la rinascita della cultura in Europa ha iniziato a perseguitarlo. Le nazioni germaniche, dopo aver diviso le masse conquistate come se fossero state prede, hanno introdotto un sistema di amministrazione interna incentrato sul potere militare (dal quale sono discese le idee di gerarchia civile e di divisione dei poteri interni) e sulle esigenze della guerra: i capi delle tribù divennero capi militari, gli anziani furono appellati “signori”, la misura delle imposte cominciò ad essere livellata sulla base dei bisogni continui della guerra interna ed esterna, così come “la disciplina militare d’una armata collettizia divenne il modus di legislazione civile”. Nelle diverse province romane conquistate, questo sistema di amministrazione assunse connotazioni particolari: di qui, partendo da una stessa radice comune, cominciano a svilupparsi diversi tipi di feudalità (“Una è l’epoca, ed uno è l’avvenimento, da cui dee ripetersi l’origine del sistema, ma le sue leggi e i suoi effetti dipendono da tante cause”). Ciononostante, esistono dei caratteri essenziali della feudalità rinvenibili tanto nella vita pubblica, quanto nella vita privata dei cittadini. Un primo carattere è quello della rivalità delle diverse parti che compongono lo Stato. Tale rivalità ha prodotto inoltre due effetti principali: da una parte, sedizioni e guerre intestine; dall’altra, la resistenza dei feudatari alla sovranità e all’ordine pubblico. Un secondo carattere, riguarda l’assenza di un ordine pubblico (per via della frammentazione dell’autorità), nonché dell’idea di giustizia (“perché le nuove nazioni insieme con le lettere distrussero le leggi e gli usi), da parte del governo feudale. Questo risulta chiaro se si guarda allo stato delle leggi civili. Un ulteriore carattere, concerne invece la somiglianza dello stato delle cultura morale, contraddistinto da una sostanziale uniformità. Momento fondamentale per la rinascita della cultura delle nazioni, si individua nel dodicesimo secolo, quando si “riaccesero le fiaccole del sapere utile”: al di là degli studi sparsi per l’Italia di medicina, di scienze matematiche, di filosofia, si sottolinea l’importanza dello studio del diritto romano e del canonico (“che introdusse idee comuni sui diritti delle persone e della proprietà (…) e fu la cagione più efficace per consolidare l’ordine interno in ciascuna nazione”) , nonché della connessione ristabilita tra tutte le parti del diritto civile, tramite la compilazione delle consuetudini, che conferì la veste di diritto certo agli usi che avevano fino ad allora formato il diritto delle nazioni (collezione che in Italia “contenne le regole per la successione e pe’ diritti ed obbligazioni vicendevoli del Sovrano e de’ Signori, oggetti (…) regolati dalle consuetudini particolari di ciascun regno e di ciascuna città”).
Anche per l’abbattimento del sistema feudale, Wispeare rileva come stessi mezzi, abbiano agito diversamente in base ai territori di riferimento: per esempio in Italia e in Francia, l’istituzione della comunità fu la prima base della libertà civile e del rovesciamento del sistema feudale. Un altro elemento fondamentale, derivato dalla ripresa dell’analisi del diritto romano, è la conoscenza delle regalìe, o diritti sovrani, che aiutarono a comprendere “quali fossero le diverse parti del dominio pubblico e del privato”. L’autore passa poi dal generale al particolare, dipingendo un excursus dell’evoluzione della feudalità nel Regno di Napoli, il quale, al contrario delle altre Nazioni (ove “i mali vi sono stati violenti, ma più brevi”), ha visto l’anarchia feudale suddividere in piccolissime parti il territorio su cui ha agito, a fronte di “movimenti interni, che altrove meritano il nome convulsioni politiche”, che hanno preso il carattere di fazioni sediziose. Passando attraverso il racconto della dominazione sveva, normanna, ed angioina, fino ad arrivare al governo viceregnale, che precedette l’instaurazione della dinastia borbonica, Winspeare delinea il complesso degli apparati feudali, parlando di donativi, di stato dei comuni, del brigantaggio, della venalità, per arrivare allo status quo ante l'emanazione della legge di eversione della feudalità: gli attuali feudatari (“diversi dagli antichi per la coltura del loro animo, pe’ costumi e per lo spirito pubblico onde sono animati”), non esercitavano più i diritti dei feudi, tuttavia rimanevano attaccati a tutto ciò che poteva conservare le loro rendite. Per questo le masse continuavano ad essere sottoposte ai medesimi abusi, e che i diritti sostenuti nella pratica, venissero condannati in teoria. Dal punto di vista dei diritti personali, si mantenevano pratiche come le opere dei rustici nei fondi baronali, la somministrazione degli animali per la coltivazione, la riscossione delle rendite baronali, il peso di alcuni servizi domestici, l’ufficio di corriere et similia; gli altri diritti personali si erano trasformati in prestazioni di denaro. Le proprietà che rientravano in un determinato feudo d’altro canto, erano sottoposte ancora a quinte, decime, “terraggi” (ossia censi in frumento), ed altre prestazioni in favore dei baroni. Su queste terre inoltre i baroni avevano il diritto di pascolo, né i fondi potevano essere chiusi o recintati, senza offendere il diritto del barone. A questi mali comuni a tutti i feudi, si aggiungevano inoltre alcune situazioni particolari: in terra d’Otranto per esempio, tutti i prodotti naturali (come pietre, acqua piovana e sterco), erano sottoposti ad un vettigale universale in favore dei baroni; vi era poi la situazione inerente ai feudi “albanesi” e alle colonie greche, stabilitesi in tutto il meridione e legate da contratti per lo più taciti con i baroni, rispetto ai quali si trovavano in una condizione di servaggio: nulla, secondo Winspeare, era stato fatto per stabilire la regolarità e la giustizia di siffatte convenzioni.
Non migliore la situazione dei comunalia (o demani comunali), che si trovavano “o illegalmente alienati, o ingombrati di servitù e di prelazioni che i baroni vi aveano a loro favore costituite”, e delle acque pubbliche (“i fiumi e le acque perenni erano state di esclusiva proprietà dei baroni, perché la regalia erasi (…) estesa a tutte le acque fluenti. I baroni (…) avevano per analogia dell’assurdo esteso il loro diritto ad ogni acquedotto, a’ laghi, alle acque stagnanti, alle acque private ed anche alle piovane”). In definitiva, ci si chiede se sia veramente possibile porre fine alla feudalità. Se da una parte si riconosce la ciclicità con la quale le nazioni cadono in preda alla barbarie, abbandonando la cultura, dall’altra si afferma che il passaggio dall’una alle altre è dovuto agli errori in cui la popolazione cade, e sembra che, nei tempi attuali, “se questa è l’eterna natura dei feudi (…), ce ne garantiscono i nostri costumi, la coltura a cui siamo nuovamente pervenuti, lo spirito delle nostre istituzioni civili”. A fronte della continua anarchia “che avvelena gli elementi della società civile”, e che potrebbe ricondurre ad un ritorno del sistema feudale, si chiede alle nazioni di tutelare i Principi, che già una volta hanno distrutto i feudi, e di guardare all’esperienza raccontata nella presente opera.
Concludo riportando i collegamenti al testo, disponibile nelle prime due edizioni, del 1811 e del 1883.
Prima Edizione del 1811: http://books.google.it/books?id=9pRAAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=davide+winspeare&hl=it&ei=jmKcTeFRkdDjBvfmhIkH&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=1&ved=0CCwQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false
Seconda Edizione del 1883: http://www.archive.org/stream/storiadegliabus00winsgoog#page/n7/mode/2up
Visto che si è parlato molto di proprietà, mi sembrava interessante questa riflessione sulla concezione di società nel corso dei secoli…
Tante proprietà quante sono le esperienze giuridiche succedutesi nel tempo?
Il concetto di proprietà non ha mai trovato una definizione chiara e concisa, nemmeno attualmente nella nostra Costituzione (art.42 riconosce e garantisce la proprietà privata) e nel nostro Codice Civile (art.832, ne indica il contenuto: il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico). Provando a ripercorrere le origini di questo, che oggi è definito dal diritto privato, diritto reale, si possono analizzare le concezioni “proprietarie” che lo hanno formato. Partendo dai giuristi romani, vediamo che non hanno definito il diritto di proprietà, ma nelle fonti ne troviamo accennati gli elementi. Nel Digesto infatti si dice che ciascuno è suae rei moderator atque arbiter e riguardo il contenuto che dominium est ius utendi et abutendi, quatenus iuris ratio patitur. Nel corso dei secoli troviamo molti richiami al potere di disporre. Ma la massima affermazione di questo diritto si trova proprio nel Code Napoleon all’art.544 che afferma che la propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la manière la plus absolue. Tuttavia la proprietà ha subito diverse critiche. Prima fra tutte la nota frase di Prouhdon “la proprietà è un furto”. Ma anche Toqueville sosteneva che la rivoluzione francese avesse abolito tutti i privilegi e distrutto tutti i diritti esclusivi, tuttavia che ne avesse lasciato sussistere uno: la proprietà. L’opinione riguardo ciò di Paolo Grossi (Quaderni fiorentini, 1988, n.17) è che la proprietà giuridica è diversa dalla concezione generica, perché è un quid qualitativamente diverso perché i giuristi ne colgono solo certi aspetti e non altri. Infatti per loro la proprietà è soprattutto un potere sulla cosa, a differenza degli economisti, per i quali essa è ricchezza, rendita dalla cosa. Perciò il catasto è formalmente un procedimento giuridico, ma con finalità e contenuti esclusivamente economici. Per Grossi inoltre la proprietà non è solo un passaggio storico, ma prima di tutto una mentalità. Questa si lega necessariamente ad una visione nell’uomo nel mondo e ad una ideologia, a causa degli interessi vitali dei singoli e delle classi. Anche se da un punto di vista sociale l’Occidente non ha mai rovesciato il caposaldo della proprietà individuale: continuità formale di un latifondo dall’età classica per tutta l’età barbarica fino al Rinascimento del XII secolo. Anche se nel Medioevo troviamo forme diverse dalla proprietà: gewere, vestitura, saisine, istituti per cui sopra la stessa terra potevano avere diritti più persone e tutte ugualmente tutelate dall’ordinamento. Tuttavia non si smentisce il dominium dell’antico titolare catastale, ma lo si devitalizza lasciando che venga espropriato nei poteri imprenditoriali dal gestore e non dal proprietario. ...continua...
Ma termini come apparenza, uso, godimento ed esercizio riescono nell’Alto Medioevo ad essere fonte e sostanza di un grande numero di assetti giuridici atipici, caratterizzati da una radicazione nel reale. Nel Rinascimento giuridico si può trovare un filo conduttore nel Dominium utile, in cui la realtà del godimento viene rivestita dalla forma del dominium. Da qui l’esempio di Grossi di un contadino vestito con un abito da cerimonia per evidenziare la contraddizione di un godimento all’interno del dominium. Egli afferma che il dominio utile non è altro che la traduzione in termini giuridici di una mentalità: quella possessoria altomedievale. Tuttavia dal ‘300, per terminare nell’800, assistiamo ad un lungo processo di rinnovazione che culmina con il rovesciamento della medesima mentalità. Mentre dunque l’ordinamento medievale aveva cercato di costruire un sistema oggettivo di proprietà, il moderno tende a scardinare le figure giuridiche dal reale a favore di una ricerca di autonomia. Troviamo il pensiero di Locke che considera la proprietà come un diritto naturale dell’uomo, insieme alla vita, uguaglianza e libertà. Perciò si trovano molteplici figure nobiliari che in realtà però non hanno più le loro terre. Un esempio di questa classe “parassita” si può notare ne “La Locandiera” di Goldoni: nobili di stirpe, ma non di denaro. Essi, come il Conte ed il Marchese nella vicenda goldoniana, pretendono privilegi e servigi pur non lavorando. Perciò possiamo notare come il concetto di proprietà sia mutato nel corso dei secoli a causa del circostante contesto storico-sociale, pur rimanendo sempre un diritto su di un bene.
Ho tovato un documento interessante riguardante una decisione della Commissione feudale nella causa fra il Comune di Tuglie(Lecce) e l’ex feudatario Duca di Minervino sul diritto di decima.In primo luogo esso esamina la situazione storica delle terre dell’attuale comune in provincia di Lecce,dalla prima dominazione francese con Luigi XII,nel 1515,fino anche a dopo il dominio Napoleonico;infine riporta la sentenza della Commissione istituita con decreto regio ,che dirime la controversia fra l’ex Duca e il comune. In Francia il sistema feudale fu definitivamente stroncato la notte del 4 Agosto 1789,la “gran nuit”,ad opera dell’Assemblea Costituente approvando la disposizione :”L’Assemblèe Nationale dètruit entièrement le régime féodal”;a titolo gratuito solo i titoli onorifici,mentre furono condizionati a riscatto (rachat) tutti quelli di natura reale e obbligatoria. Fra il 1806 e il 1808 vengono emanate dal nuovo Re Giuseppe Bonaparte, le così dette “leggi di eversione della feudalità”,volute da Napoleone ed emanate nei territori satelliti,al fine di abolire quel vecchio sistema che bloccava l’economia degli Stati italiani.Nel Regno di Napoli grazie al Catasto borbonico,furono catalogati tutti questi privilegi feudali e grazie all’opera della Commissione feudale,venne stabilito l’ammontare dei proventi di queste terre,fatte tornare sotto la giurisdizione centrale dello stato.In Italia decaddero tutti i privilegi,i proventi baronali,le giurisdizioni,sbloccando l’immobilismo che aveva caratterizzato il nostro paese,e in special modo il sud,rivitalizzando l’assetto economico-sociale. Fine quindi della mortificazione dell’agricoltura perpetuata per anni dalle imposizioni della decima e dal fenomeno della mano morta ecclesiastica,in luoghi di grande ricchezza,come la produzione olearia della terra d’Otranto. Nel 1809 sale al trono Gioacchino Murat,e il 16 Ottobre di quell’anno si rende necessario per la provincia di Otranto l’emanazione di un decreto al fine di vietare «qualsiasi diritto feudale degli ex baroni ad eccezione delle decime del grano, orzo, avena, bambagia, lino, fave, mosto, vino e olive, rimanendo vietata qualsiasi altra esazione di decime».Non fu un processo immediato l’abbattimento del feudalesimo,non erano pronti i salentini,come anche il resto della popolazione,a dire addio ad un sistema vigente da secoli. Con un ulteriore decreto,si aboliscono inoltre gli ordini religiosi.
Le terre del Regno di Napoli quindi,rientrono nella sovranità dell’amministrazione comunale,ma non ci furono dei veri e propri vantaggi per i contadini,ci fu semplicemente un passaggio fra vecchi padroni ad altri,cioè i nuovi arricchiti che non avevano alcun interesse se non quello di sfruttare la terra al massimo della sua produttività.Lo scontento non cessò quindi. La questione dei terreni demaniali da concedere ai contadini sotto pagamento di un canone perpetuo,sarà costante problema sociale per tutto il decennio francese,finendo per vanificare gli sforzi della Riforma agraria introdotta dalla legge del 1806.Gli usi civici che gravavano su questi territori,di provenienza feudale,ecclesistica,comunali e promiscui,erano diritti che le popolazioni non volevano rischiare di perdere,e la loro opposizione,insieme a quella dei grandi proprietari,vanificò il tentativo di modernizzazione che si aspettavano. Si possono rinvenire degli aspetti positivi in queste leggi? Secondo lo studioso Tommaso Pedio,ci fu comunque una discreta liberalizzazione dei beni fondiari a prezzi più accessibili. Le ragioni dello scarso successo della riforma possono essere ricercate oltre che nell’opposizione marcata,anche nella perifericità dei territori in questione,specialmente nel basso Salento,nella circolazione di beni solo per soddisfare i desideri voluttuari dei baroni,che non consetì la formazione di un vero e proprio mercato interno. Effetti positivi si rintracciano principalmente nell’assetto sociale,nei rapporti centro-periferia migliorati,nella evoluta amministrazione e nell’aumento di partecipazione politica rispetto al passato. L’aspetto economico,è tutto un altro dicorso:l’accaparramento delle terre finalmente disponibili fu a vantaggio dei nuovi ricchi,e non di certo del ceto povero. Non c’era certo l’intenzione di svilire la proprietà,con la promulgazione delle leggi di eversione della feudalità,ma di opporre i diritti come gli usi civici contro quelli dei signori feudali,ma la conseguenza non fu altro che quella di lasciare la proprietà civile in capo ai soliti maggiorenti locali. Abolendo i diritti proibitivi e le giurisdizioni,meno erano le entrate,costringendo i grandi proprietari a spezzettare le proprietà in piccoli possedimenti,più gestibili,sogette a diversificazione colturale. Da riportare la tenace opposione dei nuovi proprietari verso gli ex feudatari,rivendicando l’abolizione delle decime,che denota un cambio nelle relazioni sociali,ribaltato.Nasce una società diversa! Il processo quindi,non fu completo,e nel 1808 si rese necessaria l’istituzione di una Commissione che calcolasse i diritti in possesso dei feudatari e che dirimesse le questioni fra Università ed ex baroni.la commissione feudale composta da Dragonetti, Davide Winspeare, Giuseppe Raffaelli, Giuseppe Franchini e Domenico Coco,ebbe vita molto breve,ma lavorò intensamente fino al 1’ settembre 1810.La sua funzione fu più politica che giudiziaria,animata da sentimenti di pacificazione sociale.Anche Tuglie fu interessata dall’operato di questa Commissione,anche perché l’ex feudatario Francesco Antonio Cariddi aveva incentivato il popolamento nel suo vecchio feudo,assegnado parecchi suoi possedimenti in cambio di un canone. Quindi Comuni(ora si chiamano così le Università) si adoperarono ad adire azioni per veder iconosciuti i loro diritti e applicate le leggi.
Un esempio che qui riporto,per l’appunto,riguarda proprio la Tuglie, dall’Archivio di Stato di Lecce e nella Decisione della Commissione Feudale del 16 luglio 1810 che qui si riporta:
DECISIONE DELLA COMMISSIONE FEUDALE NELLA CAUSA FRA IL COMUNE DI TUGLIE E L’EX FEUDATARIO DUCA DI MINERVINO PER L’ESPROPRIO DELLE DECIME
Gioacchino Napoleone Re di Napoli e Sicilia Principe e Grand’Ammiraglio dell’Impero Francese
La Suprema Commissione Feudale ha pronunziata la seguente sentenza nella causa fra il Comune di Tuglie in Provincia di Lecce, Patrocinato dal Sig. Luigi Donadeo e l’ex feudatario Duca di Minervino, Patrocinato dal Sig. Cav. Pietro Andreotti sul rapporto del Signor Giudice Pedicini. L’Università di Tuglie in Provincia di Lecce ha dettato contro del suo ex feudatario Duca di Minervino: 1°) che debba esibire il titolo dell’esazione, che sta facendo della decima dell’olio, grano, orzo, avena, ceci, fave, lino e vino, e non esibendolo, debba astenersi da farne l’esazione; 2°) che debba astenersi da esigere la decima dell’orzo in erba, e la decima ancora dei limoni, portogalli, ed una dei pergolati; 3°) che debba astenersi ancora da esigere da un medesimo fondo canoni e decima; 4°) che debba pagare la bonatenenza. La Commissione, intese le parti, ed il Regio Procuratore; Considerando, su dette tre prime dimande, che Tuglie anticamente era un feudo disabitato; Considerando, che secondo la più antica informazione fiscale presa per causa di rilevi, una del 1649 e l’altra del 1684, il Feudatario esigeva la decima degli olivi, vino mosto, grano, orzo e lino; Considerando, che uno stesso feudo non può essere soggetto a doppia prestazione di canone, cioè, e decima, ma l’ex feudatario può scegliere la prestazione maggiore; Considerando, che secondo il Decreto Reale del 16 ottobre dello scorso anno l’esazione della decima delle vettovaglie si deve fare su le Aje in generi triturati, non già quando sono in erba, e quella del vino mosto in rispettivi palmenti; Considerando, che avendo il citato Regio Decreto fissati i generi decimabili, ogni altro genere non espressato nel Decreto suddetto deve essere escluso;
continua.... Considerando, che l’ex feudatario per li istremi catastali deve pagare la bonatenenza a norma dell’ultimo general catasto, e tutti gli altri pesi straordinari dal tempo, che furono imposti; Considerando che nel 1657 fu stipulata una convenzione tra l’Università di Tuglie, ed il Feudatario di quel tempo, e fu stabilito, che costui dovesse essere esente dal pagamento della bonatenenza, ma dovesse cedere a quella due bassi, ed il carcere; Considerando, che per lo stesso oggetto della bonatenenza esistono negli atti due relazioni fatte d’ordine dell’abolita Regia Camera, una dal Razionale Orlando, e l’altra dal Razionale Bruno;
Definitivamente decide e
Dichiara di competere all’ex feudatario Duca di Minervino il diritto di esigere secondo lo stato dell’attuale possesso la decima degli olivi, del vino mosto, del grano, lino ed orzi, esclusa la bambagia, le fave, l’avena ed ogni altro genere. Ordina, che dallo stesso fondo non possa esigere doppia prestazione, ma abbia la libertà di decimare sul prodotto maggiore, escluso ogni altro genere. Si astenga, lo stesso ex feudatario dall’esigere la prestazione della decima dell’orzo in erba, ma tanto dell’orzo, che delle altre vettovaglie, né faccia l’esazione su le Aje in generi triturati. Benvero chi faccia le sue veci debba essere autorizzato 24 ore prima della tritura. Si astenga dalla decima di limoni, di portogalli, e dell’uva delle pergolate, ma gli sia lecito di esigere la decima del vino mosto delle vigne, e nei rispettivi palmenti. Si proceda alla discussione delle due relazioni dei Razionali Orlando e Bruno per l’oggetto della bonatenenza sul rapporto, che dovrà farne in Commissione il Razionale Girolamo Catalano; ed intanto l’Università di Tuglie restituisca all’ex feudatario i due bassi, e le carceri, che costui le cedè colla convenzione del 1757.
Nulla per le spese della lite. Fatto in Napoli il dì 16 luglio 1810. Dai Signori Dragonetti, Presidente. Giudici Saponara, Martucci, Franchini, Pedicini. Presenti il Regio Procuratore Generale Sig. Winspeare.
Comandiamo ed ordiniamo a tutti gli Uscieri che ne saranno richiesti di porre in esecuzione la presente Sentenza. Si autorizzano i Procuratori generali; i Procuratori ff.; i Tribunali di massima istanza di darsi mano. Si autorizzano i Comandanti ed Ufficiali della Forza Pubblica di prestarsi mano armata, allorché ne saranno legalmente richiesti. In fede di che ne abbiamo sottoscritta la presente. Dragonetti, Presidente. Pedicini, Giudice. De Marinis, Cancelliere. Addì, 17 di novembre 1810. Si registri a scredito. Winspear. Giuseppe De Marinis: Cancelliere. Suprema Commissione Feudale. Regia Magistratura e Demanio - Napoli.
Al pari di molte altre sentenze, la Commissione Feudale si preoccupava di verificare la reale esistenza del diritto di decima concessa da privilegio regale o per immemorabile possesso.
A differenza delle francesi, le leggi eversive della feudalità nel Regno di Napoli […] hanno serbato agli ex-baroni tutto quello che essi possedevano per dominio fondiario, anche feudale, ed hanno solo abolito tutto ciò che aveva origine da personalità e giurisdizione .
Per quanto concerne Tuglie, si ritrova la citazione del duca di Minervino contro il Comune di Tuglie, datata Lecce 22 marzo 1812:
Il Regio Procuratore presso il Tribunale di prima istanza della Provincia di Terra d’Otranto Al Sig. Intendente della Provincia medesima. Signore, il Sig. Duca di Minervino ex Barone di Tuglie in questa Provincia ha citato quel Comune di Tuglie a comparire nel Tribunale per condannare i concessionari morosi al pagamento del canone e delle decime sui beni rustici, ed il solo canone, e delle decime in beni specifici, ed il solo canone nel suolo delle zone agricole di che trattasi.
Il Cancelliere Firmato: illeggibile
È presente ancora un riferimento al ricorso di Antonio Gonzaga, Francesco Longo e altri che chiedono di non essere molestati da parte del feudatario:
Taranto, 22 maggio 1815
AL SIG. PROCURATORE REGIO presso il Tribunale di prima istanza della Provincia di Lecce. Signore,
vi compiego un ricorso di Antonio Gonzaga, Francesco Longo ed altri manovali di Tuglie, i quali essendovi coloni nel demanio ex feudale di Neviano che dicono di aver migliorato, domandano di non essere molestati nel possesso delle loro colonie. Io vi prego di provvedere sull’esposto dei terreni di Neviano e del Giudicato della Commissione Feudale impegnato nella causa tra il Comune di Neviano e l’ex Feudatario del Circondario. Gradisca i sentimenti della mia perfetta stima e considerazione. Firmato Antonio
Altre tensioni dovettero sorgere qualche tempo dopo se da Palagiano parte un’altra missiva, datata 29 novembre 1816, con la quale si demandava alla diligenza del Procuratore Regio la soluzione di eventuali problemi insorti tra il Comune di Tuglie e l’ex-feudatario Duca di Minervino:
Palagiano, 29 novembre 1816
AL SIG. PROCURATORE REGIO presso il Tribunale di prima istanza della Provincia di Lecce.
Signore, Vi compiego la copia di una decisione profferita dalla già Commissione Feudale nella causa tra il Comune di Tuglie ed il suo ex feudatario Duca di Minervino. Io vi prego di farla pubblicare ed eseguire sotto la vostra diligenza, provvedendo sulle questioni che possano aver luogo tra le parti. Gradite i sentimenti della mia distinta stima. firmato Antonio
Commento di Desirée De Michelis
RispondiEliminaQuando si parla di Rivoluzione Francese, un tema molto importante è quello della “eversione della feudalità”. Nella notte del 4 Agosto 1789, in Francia, vennero aboliti i privilegi feudali (senza indennità): venne così definitivamente sancita la rottura con l’Ancien Regime. Iniziò, possiamo dire, un periodo di distribuzione della ricchezza: essa passò dai nobili e dal clero nelle mani della borghesia.
Il processo di eversione passò poi ai cd regni satellite e seguì un percorso particolare nel Regno di Napoli.
Tra il 1806 ed il 1808, Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e fratello di Napoleone, abolì la feudalità nel Regno di Napoli emanando le cd “Leggi eversive della feudalità. L’art 1 della legge 130 del 2.8.1806 recitava espressamente “La feudalità, con tutte le sue attribuzioni, resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali ed i proventi che vi siano annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili”.
La particolarità della “eversione della feudalità” compiuta in questo “regno satellite” fu rappresentata dalla introduzione di un principio di indennizzo per il signore che veniva privato dei suoi beni feudali. Una sorta di strumento di “pace sociale” che permetteva al signore di ricevere un piccolo compenso per la perdita subita.
Il processo di “recupero” dei beni feudali, poneva però due problemi pratici:
1.riuscire ad individuare geograficamente tali beni con precisione (ed in questo giocò un ruolo fondamentale il famoso Catasto del Regno di Napoli; opera dei Borbone)
2. trovare una soluzione per i diritti (rectius: gli usi civici) vantati dalle popolazioni locali su quei beni in base al principio “ubi feuda, ubi demania”.
In altre parole, su molti beni feudali, al momento dell’inizio del processo di “eversione della feudalità” coesistevano, insieme ai diritti del nobile proprietario, anche diritti da parte delle popolazioni locali: i cd usi civici (es il pascolativo, il legnatico, il fungatico, etc..). Stabilire con legge che i proventi di tali terre sarebbero andati da quel momento in poi alla Sovranità poneva dunque un problema con le popolazioni locali.
L’11 Dicembre 1807 venne istituita La Commissione Feudale, un Tribunale speciale per giudicare delle liti tra i Baroni e le Municipalità nate a seguito dell’abolizione della Feudalità ma soprattutto, a monte, per procedere alla individuazione e poi ripartizione dei territori feudali.
Nei primi tempi, l'attività della Commissione non sembrò essere incisiva. Con l’ascesa al trono di Gioacchino Murat i suoi membri cominciarono a fare pressioni sui municipi affinché reclamassero i loro diritti nei confronti degli ex-feudatari. I risultati furono sorprendenti: Winspeare, il suo presidente, italiano al di là del suo nome, nella sua opera Storia degli abusi feudali, ricorda in particolare come la Commissione esaminò e risolvette, nel giro di poco meno di tre anni, ben 1395 vertenze in ordine ai diritti feudali.
L' attività della Commissione si protrasse fino al 1º settembre 1810. In quattro anni l'organismo studiò oltre trecentomila processi ed emise oltre tremila sentenze, riunite in 97 volumi dal titolo "Bollettino delle sentenze della Commissione feudale", dichiarato ufficiale con decreto 26.9.1836.
Non so se può interessare ma inserisco anche una spiegazione sugli usi civici che ho trovato su internet (questa la fonte : http://www.sbordone.it/cosa_sono_gli_usi_civici.html)
RispondiEliminaGli “usi civici" sono i diritti spettanti a una collettività (e ai suoi componenti), organizzata e insediata su un territorio, il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque.
Il corpus normativo di riferimento è costituito, principalmente, dalla Legge dello Stato 16/6/1927, n. 1766 e dal relativo Regolamento di attuazione 26/2/1928, n. 332; inoltre, dalle successive norme (nazionali e regionali) in materia di usi civici.
La Legge n. 1766 indica due diverse tipologie di diritti che possono fare capo ad una popolazione:
• i diritti di uso e godimento su terre di proprietà privata;
• il dominio collettivo su terre proprie.
I primi sono soggetti a liquidazione.
I secondi che abbiano destinazione silvo-pastorale sono invece destinati ad essere fortemente valorizzati e sono sottoposti alla normativa di tutela dell´ambiente e del paesaggio, mentre quelli a vocazione agraria sono destinati alla privatizzazione.
Con il trasferimento delle funzioni amministrative statali alle regioni si è operata la scissione soggettiva tra le competenze tutte originariamente spettanti ai commissari regionali: le attribuzioni amministrative sono transitate alle regioni; ai primi sono residuate dunque unicamente i poteri giurisdizionali in ordine alle controversie sulla esistenza, natura ed estensione dei diritti civici.
I diritti collettivi su terre private sono caratterizzati dalla imprescrittibilità (e cioè dalla irrilevanza del non uso) e possono avere per oggetto le diverse utilità offerte dalla terra, quali il diritto di pascolare, di raccogliere legna, di seminare, di giuncare, di cacciare, di raccogliere erbe e ghiande, di pescare.
La Legge n. 1766 precisa che sono considerati usi civici i diritti di vendere erbe, stabilire i prezzi dei prodotti, far pagare tasse per il pascolo e altri simili su beni dei privati.
Non sono, invece, diritti civici le consuetudini di cacciare, spigolare, raccogliere erbe e simili, le quali, non essendo soggette a liquidazione, rimangono in esercizio finché non diventino incompatibili con la migliore destinazione data dal proprietario al fondo
Il presupposto logico della liquidazione risiede quindi nell´accertamento dell´esistenza, dell´estensione e nella valutazione degli usi stessi.
A tale accertamento provvede la Regione sulla base di denuncia di parte, la quale assolve alla funzione dichiarativa di far conoscere gli usi esercitati o che si pretende di esercitare.
La dichiarazione è necessaria esclusivamente per gli usi gravanti su terre private e non già invece per le terre comuni gravate, le quali non sono soggette a liquidazione, ma solo eventualmente a quotizzazione.
(continua)
La Legge n. 1766 prevede che i diritti civici su terre private siano liquidati.
RispondiEliminaLa liquidazione consiste nella trasformazione della comproprietà tra proprietario e collettività in proprietà per quote, delle quali una viene attribuita alla comunità e l´altra resta al proprietario in dominio libero ed esclusivo.
Una volta individuata l´estensione delle quote di proprietà spettanti, rispettivamente, al proprietario e alla collettività, esse vengono loro assegnate in natura ovvero per equivalente tramite un canone di natura enfiteutica a favore della comunità.
La liquidazione può avvenire secondo due sistemi:
• liquidazione con scorporo: tale sistema dovrebbe essere quello ordinario. La Legge n. 1766 stabilisce le modalità da seguire per determinare le quote;
• liquidazione con canone: la Legge n. 1766 stabilisce, infatti, che sono esentati dalla divisione i terreni che abbiano ricevuto dal proprietario migliorie sostanziali e permanenti e i piccoli appezzamenti non raggruppabili in unità agrarie; in tal caso, i fondi sono gravati da un canone annuo di natura enfiteutica a favore del comune in misura corrispondente al valore dei diritti.
Le terre d´uso civico sono, incommerciabili e inusucapibili; la legge prevede, tuttavia, la possibilità per gli occupatori abusivi di legittimare la loro posizione per il tramite di una complessa procedura amministrativa di sanatoria, la quale ha l´effetto di trasformare in allodio il terreno d´uso civico illecitamente detenuto.
Le terre d´uso civico abusivamente occupate possono essere legittimate in presenza di quattro condizioni:
• che l´occupatore abbia apportato migliorie sostanziali e permanenti;
• che la zona occupata non interrompa la continuità del demanio;
• che l´occupazione duri da almeno dieci anni;
• che non si tratti di terreni classificati come bosco o pascolo permanente.
La legittimazione avviene tramite l´imposizione sul fondo di un canone di natura enfiteutica a favore del Comune o della associazione.
Al fine di accertare quali terre d´uso civico siano state oggetto di abusiva occupazione, la Regione può disporre, per il tramite del perito demaniale, la ricognizione e la individuazione dei confini della proprietà collettiva, in base a documenti e piante e, in mancanza di documenti originari, sulla base dei dati dei catasti antichi e recenti; successivamente procede a rilevare i possessi interni al confine e distingue i possessi legittimi da quelli abusivi.
In presenza di occupazioni abusive, il perito verifica la sussistenza dei requisiti per la legittimazione e in caso affermativo determina il canone; in caso negativo, invece, determina la misura dei frutti percetti e propone alla Regione la reintegra.
La titolarità sostanziale dei diritti di uso civico spetta alla comunità di abitanti.
Tuttavia, nel vigente ordinamento la comunità in quanto tale, non è in grado di esercitare le situazioni giuridiche di cui è in astratto titolare, non essendo dotata di personalità giuridica.
Al fine di consentire ai residenti di agire validamente nell´ordinamento, sono state individuate alcune forme organizzative, atte a rappresentare la comunità, e alle quali sono imputate alcune facoltà di amministrazione che non possono essere esercitate dai singoli componenti del gruppo.
All´ente gestore, tuttavia, non spetta alcun diritto sui beni medesimi; esso rappresenta unicamente la collettività e garantisce la coesistenza del diritto dei “cives”, attraverso poteri e facoltà di amministrazione.
Claudia Zennaro
Il commissariato per la liquidazione degli usi civici e la legge quadro sugli usi civici del 1927: Con il termine di uso civico si indica una forma di proprietà collettiva nata in età antichissima che si è andata affievolendo nel corso degli anni con la nascita del concetto di proprietà individuale. Gli usi civici sono, infatti, un diritto appartenente ad una collettività esercitato su un terreno in modo tale da ottenere benefici utili alla sussistenza della popolazione stessa. Essendo diventata sempre minore l’importanza dell’agricoltura nell’economia del paese ai fini della sussistenza della popolazione, il concetto di uso civico è mutato assumendo sempre più l’accezione di vincolo. ( se qualcuno fosse interessato a leggere la legge ecco un link utile : http://www.regione.lazio.it/binary/agriweb/agriweb_normativa/legge_n_1766_del_16_06_1927.1200651815.pdf )
RispondiEliminaNel 1927 le servitù collettive gravanti sulle proprietà fondiarie,dette anche usi civici erano viste con un particolare sfavore, come un retaggio medioevale che impediva lo sviluppo dell'agricoltura moderna. Al commissario spettavano dunque la tutela degli usi civici, la risoluzione dei conflitti su di essi, sui demani comunali e i domini collettivi, nonché la liquidazione degli usi civici su terre private, sulla destinazione delle terre di originaria appartenenza di comunità o pervenute a comuni, frazioni, associazioni in seguito ai vari procedimenti previsti dalla stessa normativa.
Ecco perché venne prevista l'istituzione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (istituito appunto dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 )al quale venne affidato il compito precipuo di liquidare gli usi demaniali e civici insistenti sui terreni privati mediante la cessione alle comunità utenti di una porzione delle terre gravate; lo scopo del legislatore era dunque l'affrancazione dei fondi, con forti poteri inquisitori sia di tipo giurisdizionale che amministrativo. Il modello cui il legislatore del 1927 ha fatto riferimento era quello dei Commissari ripartitori istituiti, nel Regno di Napoli, nel quadro dell'eversione della feudalità, a partire dall'inizio del XIX secolo. Diversa, invece, è la destinazione data dalla legge 16 giugno del 1927 ai diritti civici esercitati sulle terre comunali e frazionali, che devono essere riordinati e conservati se dette terre abbiano natura silvo-pastorale. In tal caso, le terre restano soggette ad un regime di inalienabilità, indivisibilità simile a quello delle terre del demanio pubblico, e tutelate anche nei loro aspetti naturalistici da un vincolo di destinazione. Nel caso, invece, in cui le terre siano convenientemente utilizzabili per le colture agrarie, si prevedeva la dazione delle stesse in enfiteusi ai coltivatori.
Con l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario negli anni settanta, venne deciso il trasferimento dei poteri amministrativi del Commissario a questi nuovi enti locali, lasciando, intatto il potere giurisdizionale, con il DPR 24 luglio 1977 n. 616. Nel 1993, l'articolo 5 della legge n. 491, trasferisce le competenze in materia di Commissariati agli usi civici esercitate dal Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste al Ministero della Giustizia, per la soppressione del primo discastero in seguito a referendum. Resta comunque in vigore, per le parti non modificate dalle norme citate, la legge 1766 del 16 giugno 1927.
..continua..
RispondiEliminaLa struttura dei Commissari è parificata a quella di sezione specializzata di Corte d'appello, ove ha sede. I commissari, infatti, sono magistrati con grado non inferiore a quello di Corte d'Appello. Le sentenze dei Commissari agli usi civici possono essere appellate esclusivamente di fronte:
- alla Sezione specializzata per gli usi civici della Corte d'Appello di Palermo, se provengono dal Commissariato per la Sicilia;
- alla Sezione specializzata per gli usi civici della Corte d'Appello di Roma, se provengono dagli altri tredici Commissariati.
La competenza territoriale dei Commissariati, che ha subito diverse modifiche dal tempo della loro istituzione, coincide oggi, a seconda dei casi, col territorio di una, due o tre Regioni. A norma dell'art. 66 del DPR n. 616/1977, le funzioni amministrative già del Commissario agli Usi Civici sono trasferite alle Regioni. Da tale data esse non sono più esercitate dai Commissari, con la sola eccezione del Commissario di Trieste. In alcune regioni è in atto il rilancio dell'istituto, rivisto come una possibilità di un miglior utilizzo dei beni demaniali, non più inteso solo in senso di fonte di reddito, ma anche come modo di conservazione dell'ambiente e dei valorizzazione delle tradizioni del mondo rurale.
Questa legge,dunque, inserisce i beni e diritti delle popolazioni (proprietà e diritti collettivi), in un regime di gestione programmata a destinazione vincolata e diversificata secondo la vocazione dei beni. Distingue due categorie di beni:
- patrimoni silvo-pastorali, gestiti a fini produttivi e di conservazione ambientale in base a piani economici di sviluppo;
- terre atte a coltura, ripartite in quote da assegnarsi in enfiteusi agli aventi diritto.
Molto importante risulta l’art.11 di questa legge in quanto comprende nel regime della legge del 1927 sia i beni collettivi originari, intendendo per tali i beni delle comunità di abitanti organizzate stabilmente in un territorio e le terre acquisite attraverso ogni forma di possesso collettivo, che i beni assegnati ai comuni, frazioni od associazioni agrarie per effetto delle operazioni di sistemazione delle terre e di liquidazione dei diritti di cui all'art. 1 stessa legge e normative anteriori. Al fine di risolvere una questione sorta negli ultimi decenni del sec. XIX circa la natura dei beni della collettività intestati all'ente esponenziale (comune) e destinati all'esercizio degli usi, il legislatore nazionale del 1927 ha sottoposto allo stesso regime tutti i beni posseduti dai comuni (e frazioni) su cui si esercitano gli usi, comprendendo così tra le terre collettive anche quelle gravate da usi che fossero comunque nel possesso del comune. Le terre collettive anteriormente alla legge del 1927 erano indicate con termini diversi nelle varie località e regioni: in genere demani universali nel sud, altrove, soprattutto negli ex Stati pontifici, proprietà o domini collettivi, in altre zone d'Italia terre comuni, comunanze, comunaglie, e regole e vicinie nell'arco alpino, ecc.
..continua..
RispondiEliminaPer molto tempo tale argomento è stato trattato solo marginalmente dagli storici del diritto ed è stato generalmente sottovalutato dai giuristi, in giurisprudenza tuttavia si è sempre tenuto presente il rapporto universitas civium — intesa come comunità di abitanti organizzata in un territorio — ed ente-comune quale successore della prima: ed anche quando la gestione dei beni pubblici è passata al comune, si è mantenuta distinta la gestione dall'appartenenza riconosciuta sempre in capo alla collettività. Nella dottrina pubblicistica più recente si nota invece un interesse diverso per la categoria delle proprietà collettive, di gruppi o comunità originarie di abitanti insediate in un territorio (le antiche comunità di villaggio) cui si riconosce autonomia ed uno specifico regime mantenutosi fino all'ordinamento attuale. In zone determinate, per lo più del centro nord, si sono mantenute anche gestioni patrimoniali autonome che col tempo si sono trasformate sempre più in forme organizzate chiuse di membri unite dal vincolo familiare o da requisiti di professionalità o di incolato, rette da propri statuti e consuetudini. Anche se la legislazione del 1927 ha cercato di unificare tutte le gestioni collettive in un solo regime a carattere pubblicistico, le comunità a carattere più chiuso ed esclusivo hanno rivendicato spesso una struttura ed origine privatistica sul modello dell'associazione agraria (comunione familiare nei territori montani) che mal si conviene alle origini e titoli costitutivi delle stesse organizzazioni. La tesi circa la natura privatistica di questi gruppi è stata tenacemente sostenuta da una parte della dottrina ed ha portato in epoca recente al riconoscimento legislativo di forme autonome di gestione che pur tuttavia ne ha lasciato integro il regime di inalienabilità.
Caratteristica delle terre collettive è stato ed è tuttora il particolare regime di indisponibilità e di destinazione vincolata ai bisogni primari della comunità di abitanti (art. 12, 2° co., 1.1766/27).L'inalienabilità dei patrimoni delle popolazioni ha avuto spiegazioni diverse: nelle zone ad influenza germanica la si è ritenuta derivata dalla concezione stessa della proprietà collettiva: gli scrittori meridionali, considerando il passaggio storico universitas civium - comune, risalirono al principio di indisponibilità proprio delle terre pubbliche e ne trovarono l'origine nella costituzione di Leone Augusto «de vendendis rebus civitatum» inserita nel codice giustinianeo. La giurisprudenza ha confermato lo sforzo unificatore della dottrina e ha recepito il principio della indisponibilità dei beni civici col massimo rigore permettendone così la conservazione. Di fatto si è verificata — già nel corso dell'800 fino ad oggi — una notevole dispersione dei patrimoni collettivi rispetto alla loro antica consistenza; anche se ne residuano estensioni ingenti, il fenomeno è veramente impressionante e ciò non per difetto di norme, ma per le continue occupazioni di terre da parte dei singoli facilitate dal difetto di gestioni utili e dalla scarsa tutela di questi beni da parte degli organi gestori. Il regime di indisponibilità assoluta persiste in pendenza delle operazioni di verifica delle terre sottoposte al regime di legge, verifica che si conclude con l'atto di assegnazione a categoria in base a piano di massima, mentre per i beni produttivi essa è mantenuta fino alle operazioni di quotizzazione e cessione delle quote in enfiteusi agli aventi diritto.
continua..
RispondiEliminaCon l'assegnazione a categoria — definito atto di accertamento costitutivo — il demanio civico perde le sue caratteristiche di terra collettiva quale «compendio di beni in proprietà collettiva di una comunità di abitanti» e si converte, secondo le finalità della legge, «in proprietà collettiva a destinazione pubblica ovvero in proprietà privata per le quote di terra a vocazione agraria» . Ne consegue che l'assegnazione a categoria condiziona l'applicazione della nuova normativa di gestione ai beni delle popolazioni: mentre le terre produttive del secondo tipo ( ovvero le terre atte a coltura, ripartite in quote da assegnarsi in enfiteusi agli aventi diritto ) sono destinate alla privatizzazione e cioè ad essere ripartite in quote, secondo piani tecnici di sistemazione fondiaria o di avviamento colturale ed assegnate a titolo di enfiteusi agli utenti, le terre del primo tipo(boschi e pascoli permanenti) acquisiscono un particolare regime a destinazione pubblica: la destinazione è vincolata alla produzione e/o conservazione ambientale e la gestione è finalizzata alla destinazione secondo piani economici e regolamenti degli usi formati ed approvati a norma della legge forestale 30 dicembre 1923, n. 3267.
Molto interessante appare anche la decisione presa dalla Corte costituzionale che ha ritenuto legittima la istituzione di parchi regionali sui territori di demanio civico; interessante perché riconosce «per i beni silvo-pastorali la 'subordinazione' della 'destinazione pubblica all'utilizzazione come fattori produttivi, impressa ad essi dalla 1. del 1927 ', nel nuovo ordinamento costituzionale, all'interesse di conservazione dell'ambiente naturale, in vista di una utilizzazione, come beni ecologici, tutelato dall'art. 9, 2° co., Cost.».Il giudice costituzionale ha ritenuto anche non necessario il mutamento di destinazione per l'inserimento delle terre civiche in un parco o in una riserva naturale. La sentenza sembra non essere stata condivisa nella parte in cui considera di natura privatistica i diritti civici senza sottolinearne la specificità di diritti reali di godimento attribuiti ed esercitati dai soggetti «uti singuli et uti cives», cioè dai singoli in quanto facenti parte del gruppo o comunità insediata nel territorio. E ciò sulla bese del fatto che trascurare questo aspetto significa snaturare l'intero istituto nella sua origine e natura giuridica.
continua..
RispondiEliminaLa necessità di tutelare i patrimoni collettivi residui e non trasformati irreversibilmente dall'intervento dell'uomo, ha indotto il legislatore nazionale ad estendere all'intera categoria dei diritti e beni civici delle comunità locali (impropriamente definite « aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici ») il vincolo di tutela paesaggistica. Con l'includere i territori a gestione collettiva nell'ambito dei beni di interesse ambientale e paesaggistico, il legislatore statale ha riconosciuto il ruolo essenziale che le gestioni delle comunità locali hanno avuto nella storia e conformazione del paesaggio e la necessità di conservarle per il contributo dato alla « salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio » . Anche il giudice costituzionale, in una serie di sentenze, ha giustificato il mantenimento degli speciali poteri di impulso d'ufficio riconosciuti ai commissari per gli usi civici, riferendosi all'interesse generale della collettività alla conservazione degli usi civici in funzione di difesa ambientale. Il vincolo ambientale, se ha contribuito a creare un nuovo interesse intorno a questi antichi diritti, non ha trovato lo stesso favore e consenso tra le comunità locali e gli amministratori dei patrimoni collettivi, abituati a considerare questi beni soltanto come possibili fonti di reddito per i bilanci comunali e degli enti.Bisogna convenire con gli utenti e con i gestori locali su di un concetto di base: il diritto civico storicamente non è stato mai inteso od utilizzato come un vincolo; al contrario, esso era fonte di vita per i cives e, nello stesso tempo, la presenza del civis sul territorio ne costituiva il maggior fattore di difesa e conservazione. Invece i vincoli paesaggistici sono stati sentiti dalle comunità locali come una costrizione, nei limiti in cui essi vengono a comprimere gli antichi diritti ed il loro esercizio in conformità delle norme statutarie e consuetudinarie (ne è prova la conflittualità continua con gli enti - parco entro i perimetri tutelati).
(In passato, negli anni 80’, c’è stato un fortissimo contenzioso tra i Comuni d’Abruzzo all’interno del perimetro del Parco naz. d’Abruzzo e l’Ente – Parco sulla gestione dei demani boschivi e pascolivi delle comunità; anche le comunanze agrarie all’interno del Parco naz. dei Monti Sibillini hanno reagito con ricorsi avverso la loro inclusione nel perimetro del Parco. Anche l'assenza dei rappresentanti delle comunità locali all'interno della Comunità del parco è segno dello spregio dell'ordinamento centrale nei confronti delle stesse comunità e dei loro diritti sul territorio). In realtà, i vincoli paesaggistici e la maggiore rigidità della normativa non possono risolvere i molti problemi che stanno alla base della crisi dell'istituto e che sono dovuti alle nuove e mutate necessità della società nei suoi vari contesti (urbano, rurale, terziario, industriale, etc.). E solo studiando un nuovo e più efficace modello di gestione, che si può arrestare l'attuale processo di disgregazione dei patrimoni delle collettività, ma di questo tratteremo alla fine (mondo moderno).
continua..
RispondiEliminaLa destinazione dei beni della prima categoria (patrimoni silvo-pastorali, gestiti a fini produttivi e di conservazione ambientale in base a piani economici di sviluppo) non è rigida ma può essere variata in relazione alle esigenze contingenti della collettività, ad esito di un procedimento tecnico-amministrativo di competenza regionale, secondo una ratio derivata dagli precedenti ordinamenti. Ove la nuova destinazione venga a cessare, il decreto di autorizzazione prevede il ritorno delle terre alla destinazione originaria o ad altra da stabilirsi. II regime di indisponibilità di questi beni può essere derogato solo in casi eccezionali (per terre residue o marginali ovvero inidonee in assoluto a fini di legge) o — secondo la giurisprudenza — per realizzazioni di finalità di pubblico interesse ed è regolato da una normativa assai restrittiva (art. 39 r.d. n. 332), interpretata con criteri rigorosi dalla giurisprudenza che ne ha spesso equiparato gli effetti a quelli della demanialità. Nelle molte pronunce di nullità assoluta di vendite non autorizzate, si è stabilito il principio che l'alienazione può essere consentita solo se ne ricorrano effettivamente i presupposti di legge e sempre dopo il compimento della verifica e l'assegnazione a categoria.La Corte costituzionale ha definito il regime di inalienabilità dei beni di demanio civico come un regime di «alienabilità controllata», ammettendo la possibilità anche di assoggettamento dei beni civici ad espropriazione forzata. II fenomeno delle vendite di terreni di demanio civico non assegnati a categoria ha assunto soprattutto negli anni '60-'80 dimensioni preoccupanti. Al fine di evitare le rigorose conseguenze della nullità assoluta di tali vendite — beninteso quando fossero state autorizzate dall'Autorità competente — è intervenuto in alcune regioni il legislatore con norme di diritto transitorio: cosi in Abruzzo la 1. reg. 3 marzo 1988, n. 25 attribuisce al Consiglio regionale il potere di provvedere alla convalida delle autorizzazioni all'alienazione delle terre civiche non previamente assegnate a categoria, quando gli atti di alienazione siano stati stipulati e registrati anteriormente all'entrata in vigore della legge. Il Consiglio regionale è tenuto a valutare l'interesse pubblico delle autorizzazioni da convalidare. La norma transitoria — giustificata dagli inammissibili ritardi ed omissioni degli uffici nella definizione delle procedure di classificazione dei terreni civici — è stata considerata legittima dalla C. cost. in diverse sentenze e sotto diversi aspetti (sentenze 26 gennaio 1990, n. 31; 25 maggio 1992, n. 221, e 27 maggio 1992, n. 237).
Morena Sicignano
Volevo riportare il punto di vista di Grossi riguardo la proprietà collettiva. Grossi riprende la definizione di Cattaneo per cui la proprietà collettiva è “un modo diverso di possedere”. è un’anomalia che si distacca dal modello, questa appartiene ad un canale parallelo ma originale rispetto alla proprietà: nasce prima dello stato italiano e delle certezze illuministiche che si basavano su una proprietà individuale di stampo romanistico. Per Regnoli la proprietà collettiva è “perturbatrice dell’ordine morale e della pubblica tranquillità “,Grossi trova una giustificazione per questa affermazione nel periodo in cui vive: nel 1865 prevale il pensiero liberista fondato su una concezione individualistica della proprietà che ha carattere costituzionale. Grossi invece segue la scia di Bolla che dichiara inutile misurare la proprietà collettiva con un metro statuale, tipico della cultura giuridica, intessuto nella certezza del diritto romano. La legge del 1927 ha creato, per Grossi, tre guasti:
RispondiElimina• ha reso uguali tutti gli usi civici senza distinzione;
• ha preso come modello di uso civico quello meridionale, escludendo le peculiarità del modello settentrionale;
• si basa su un modello pubblicistico di uso civico.
Grossi distingue le proprietà collettive: quelle autentiche sono un ordinamento giuridico primario (vivere associato) mentre quelle ridotte non sono altro che collettivismo fondiario. Secondo Grossi con l’illuminismo si abbandona il pluralismo e i giuristi restano legati all’apparato autoritativo dello stato; tutto ciò che si discosta è pseudo diritto. Lo stato è unico ma la società civile produce pluralisticamente diritto; la proprietà collettiva è un istituto che viene dal basso e non è imposto dall’alto: è un costume giuridico che deve essere rispettato attraverso la minima produzione di leggi da parte dello stato.
In quale libro di Grossi ha letto questa interpretazione? (indichiamo sempre la fonte!)
RispondiEliminaMi scusi. L'ho letto ne "I domini collettivi come realtà complessa nei rapporti con il diritto statuale" pubblicato in Riv. Dir. Agr. 1997
RispondiEliminaTra i ceti sociali che tendono a tutelarsi da quest’eversione feudale troviamo sicuramente quello del clero. Un’analisi attenta a riguardo è contenuta nel libro del professor Cardia, Le sfide della Laicità. Egli parte dal momento in cui nell’800, su ispirazione del fenomeno portato dalla rivoluzione francese, conosciuto come separatismo, anche in Italia il ceto ecclesiastico viene man mano svuotato dei propri privilegi. Infatti vediamo subito nel 1850 con le Leggi Siccardi l’abolizione dell’istituto del foro ecclesiastico. Questo permetteva che i chierici non potessero essere giudicati dal tribunale civile absque pontificis permissu, bensì che il vescovo fosse il loro giudice. Il privilegio del foro trovava il suo precedente più antico addirittura nell’episcopalis audientia di Costantino, riconoscimento della competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici su alcune materie. Dunque si arrivò all’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge: non vi è più l’esistenza di tribunali ecclesiastici. Poco dopo vengono inoltre aboliti gli ordini religiosi ed il loro patrimonio viene incamerato dallo Stato. Sono proprio lo Stato italiano, i Comuni e gli altri enti pubblici a diventare proprietari di migliaia di edifici di culto. Verrà successivamente tolto valore anche al matrimonio religioso e ci sarà una laicizzazione della scuola (nascita scuole pubbliche che dipendono esclusivamente dallo Stato).
RispondiEliminaYlenia Coronas
Il fenomeno della feudalità:
RispondiEliminaIl fenomeno della feudalità, deve anzitutto cercare le origini strutturali dell’istituto per comprenderne a pieno la nascita e soprattutto le grandi difficoltà che si dovettero superare per strappare di mano ai feudatari i «loro» feudi .In realtà non è da credere che l’eversione della feudalità, in tutti i suoi aspetti sia stata un fenomeno tale da stravolgere in maniera dirompente il sistema baronale. La nobiltà feudale fu rispettata e la proprietà feudale, originariamente costituita dalla detrazione del demanio universale – accantonati pochi usi civici, e solo poco più importanti appezzamenti, in favore della popolazione dei Comuni – passò quasi tutta in libero dominio ai feudatari.
I baroni furono privati in realtà della giurisdizione, dei diritti proibitivi e di alcune prerogative fiscali. Ebbero in libera proprietà quei terreni del feudo senza contestazione goduti e amministrati in maniera esclusiva (difese legittimamente costituite, terreni chiusi e migliorati). Continuarono a riscuotere decime e censi, ma quasi tutte le prestazioni divennero redimibili e talora furono ridotte o estinte. In tale maniera soprattutto, fu creata – o per lo meno si volle creare, ma senza esito positivo – una piccola e media proprietà contadina interamente libera o facilmente riscattabile.
A causa poi dei numerosi stravolgimenti in Europa vennero emanati molti provvedimenti liberali, tra questi va citata la legge del 2 Agosto , 1806, emanata da Giuseppe Napoleone Re di Napoli e di Sicilia, questa segnò in parte la caduta dell’impero feudale.
In realtà si volle l’abolizione non solo sulla spinta delle leggi e della dominazione francese, per attuare in tutta l’Europa i fervori rivoluzionari, ma anche perché la feudalità – o per meglio dire il sistema feudale – provocava danni enormi ad una molteplicità di soggetti. Le popolazioni dei territori baronali, infatti, non solo subivano le angherie tributarie dei feudatari, ma vedevano i demani feudali chiusi perché destinati a difese. Le Università vantavano crediti ingenti dai feudatari che questi continuavano ad ignorare, arrivando, a volte, ad occupare parte dei demani delle stesse Università, con lo scopo di alienarli. Ma, forse, a soffrire i mali peggiori era il Demanio statale, che, a causa di una burocrazia troppo lacunosa, e spesso compiacentemente indolente, permetteva ingenti distrazioni dal suo patrimonio.
Giulia Onesti
Volevo chiedere un chiarimento : rileggendo gli appunti della lezione di lunedì 4 Aprile, in cui il Professore ha introdotto il problema della eversione della feudalità, ho appuntato un riferimento al Leviatano di Hobbes, in merito a quale argomento era stato citato? sempre riguardo la Feudalità?
RispondiEliminaGiulia Onesti
Giulia,durante la lezione di lunedì abbiamo analizzato alcuni aspetti del Droit Intermediaire come pensiero giuridico fondamentale per istituti e mentalità successive ,come diritto la cui natura è ideologica :laicizzazione del matrimonio,l’eversione della feudalità. Ma inizialmente ,facendo un discorso generale, il Professore ha sottolineato come la forza di questo diritto ideologico sia stata nell’immediato dopo-Termidoro ridimensionata dall’atteggiamento mentale dei giuristi napoleonici.
RispondiEliminaRiporto qui di seguito un passaggio tratto da Cavanna “Onora il padre”:
“Quanto alla cultura del dopo termidoro,questa risale addirittura ad Hobbes … I giuristi del Direttorio e del Consolato sono sopravvissuti ai giorni della carrette,della Legge sui sospetti,del terrore posto all’ordine del giorno,dell’affossamento del diritto nel moralismo totalitario e sacerdotale di Robespierre.Ora si muovono tra le macerie della legalità e dell’ordine civile in un clima di disorientamento morale. Per molti di loro il ritorno alla natura predicato dalla retorica della dittatura giacobina c’è stato,purtroppo, davvero .E ha rivelato ,appunto,l’autentica natura dell’uomo:che non è quella del selvaggio roussoviano,ma addirittura quella lupesca del Leviathan. Uscire dalla crisi politica e morale,ricostruire i legami forti,i quadri stabili di una società che deve ridiventare vivibile … E se l’uomo non è intrinsecamente buono (Hobbes aveva osservato che “un figlio emancipato o uno schiavo affrancato temono meno di prima colui che essi vedono spogliato del suo potere perché l’onore e la riverenza interiori tributati a una persona altro non sono che una certa stima del suo potere”),altruista,capace di affetti disinteressati,lo si deve indurre a comportarsi come se lo fosse .Alla diagnosi di stampo hobbesiano si accoppiano le convinzioni filosofiche in voga:quelle dell’utilitarismo alla Helvetius ecc….”.
Questo per dire che una volta individuato nell’interesse il movente delle azioni umane e nell’egoismo il movente che governa anche i rapporti più intimi come quelli familiari,il legislatore del codice civile francese se ne servirà per il bene comune.”La sua arte,la sua tecnica ingegneristica saranno quelle di far agire al meglio un uomo così artificialmente disciplinabile,facendo leva sulla sua natura calcolante(utilitarismo).Questo spiega la restaurazione napoleonica della patria potesta,il consenso parentale alle nozze,i limiti al divorzio… “
Monica
Grazie ora ho capito. Non comprendevo come fosse collegato con quello che stava dicendo il professore, probabilmente perchè per seguire non avevo scritto. Grazie ancora.
RispondiEliminaPer quanto riguarda la Legge quadro del 1927, ricordiamo l’opinione di Paolo Grossi, tratta dai Quaderni Fiorentini, 1990, n.19.
RispondiEliminaEgli ha affermato che tale legge ha prodotto quattro guasti clamorosi: volle essere unitaria, nazionale realizzando un’artificiosa uniformità; non solo, ma costruì la norma generale sul calco della classica e sempre gloriosa legislazione medievale, senza tenere conto delle diversità locali. In merito Grossi parla di una veste aliena ed inidonea, perché raggruppò tutte le varie normative in un'unica mole, stringendosi sotto la dizione di Usi Civici. Con questi si riportavano le proprietà promiscue sotto il potere pubblico: una riduzione pubblicistica che il nostro giurista configura come una violenza legale. Ricordiamo che in quel periodo vigeva, largamente diffusa, l’idea del legislatore onnipotente, creatore di leggi giuste e ancora di più l’identificazione tra cultura ufficiale e cultura giuridica. Dunque il fenomeno dei diritti promiscui e delle proprietà collettive usciva dalla legge del ’27 quale prigioniero di un’armatura inidonea. Essa stabiliva dei Tribunali speciali (Commissioni degli usi civici) con il compito, se possibile, di sciogliere (liquidare) i diritti collettivi. Quando si accertava che gli abitanti di un villaggio avessero sempre usufruito di un bene, se questo bene era di proprietà del comune, veniva considerato demaniale. In questo caso si bloccava lo stato dei luoghi. Un blocco aggirato con l'indennizzo della proprietà grazie al distacco di una parte del bene, considerata demaniale, mentre restava l'utilizzo per l'altra parte patrimoniale. Ma quando erano le popolazioni ad avere diritti su beni privati, il privato poteva liquidarli dando una parte del bene al comune, bene demaniale. Quindi c’è un aumento della proprietà pubblica a favore di un’estinzione di diritti reali su cosa altrui.
Ylenia Coronas
Qui di seguito passaggi tratti da “Un aspetto dell’eversione della feudalità nel regno di Napoli:la soppressione delle corporazioni religiose e la vendita dei beni dello Stato” di P. Villani
RispondiEliminaEstratto dalla Rassegna Storica del Risorgimento Anno XLIV – Fascicolo II – III – Aprile-Settembre 1957 Istituto Poligrafico dello Stato
"Di solito, quando si parla di eversione della feudalità nel regno di Napoli,si fa riferimento alla legge del 2 agosto 1806 che aboliva la giurisdizione feudale,ordinava la divisione del demanio tra ex feudatari e comuni,riconosceva ai baroni la libera proprietà delle terre che rimanevano loro assegnate dopo la soddisfazione dei diritti dell’universalità dei cittadini.
Ma l’eversione della feudalità si presenta come un ampio processo … di quel processo sono certamente aspetti considerevoli la soppressione degli ordini monastici,l’incameramento dei loro beni al Demanio,l’alienazione di essi a sostegno delle finanze del nuovo Stato e a favore dei sostenitori del nuovo regime.
Certo è che mentre assai timide ed incerte furono le azioni del riformismo borbonico contro la feudalità laica,con maggiore energia si agì contro la feudalità ecclesiastica,come prova,tra l’altro,il concordato del 1741 che limitò le esenzioni e i privilegi goduti dai beni ecclesiastici e inibì l’accrescimento della manomorta. Nè si esitò a sopprimere monasteri e ad incamerarne i beni ed a venderli a privati quando improvvise esigenze richiesero di ricorrere a risorse straordinarie,come avvenne nel 1783 in seguito al terremoto di Calabria,con la formazione della Cassa Sacra.. Anche in questa direzione come in tante altre potrebbe sembrare che il governo dei Napoleonidi non abbia fatto altro che proseguire e condurre a fondo l’azione riformatrice dei Borboni.Impressione sostanzialmente fallace … la differenza fondamentale sta nel fatto che mentre i Borboni agirono molto empiricamente,senza chiarezza di prospettive,sospinti da circostanze,i Francesi avevano un programma … diretto alla creazione di un nuovo tipo di organizzazione statale.
Sicchè alla soppressione degli ordini monastici concorsero,con i motivi immediatamente di ordine finanziario,motivi di natura ideologica che trovano espressione nel preambolo della legge ove si afferma,tra l’altro,che ormai gli ordini religiosi avevano assolto ed esaurito il loro compito e che ”l’amore delle arti e della scienza diffuso generalmente,lo spirito coloniale,commerciale,e militare han forzati tutti i governi d’Europa a rivolgere verso questi oggetti importanti il genio, l’attività ed i mezzi delle loro nazioni” .
L’organicità dei piani di riforma francesi trova conferma anche nel fatto che l’incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici erano legati al provvedimento che richiamava allo Stato la percezione di tutti gli arrendamenti “di qualunque natura fossero e sotto qualunque amministrazione si trovassero”(legge 25 giugno 1806).Il sistema degli arrendamenti,vendita o appalto ai privati del diritto di riscossione delle pubbliche entrate,era anch’esso uno dei residui più scandalosi della vecchia amministrazione finanziaria,che si spiega colla confusa ed incerta distinzione tra ius publicum e ius privatum propria dei tempi e della concezioni feudali.
Si cominciò con l’incamerare i beni degli ordini di S. Benedetto e di S. Bernardo,colpendo così i monasteri più ricchi. Neppure gli ordini mendicanti furono risparmiati e numerosi conventi furono aboliti con decreti particolari tra il Marzo 1807 e il Gennaio 1808. Il colpo definitivo fu arrecato dal decreto del 7 agosto 1809 che ordinava la soppressione di tutti gli ordini possidenti ,e delle congregazioni dei domenicani,dei francescani e dei teatini .Complessivamente ,durante il decennio furono soppressi più di 1100 conventi e monasteri.
Dopo la lezione di mercoledì, ho deciso di fare un excursus storico sulla successione testamentaria per individuarne le origini e le differenze nel periodo post-rivoluzionario francese, vedendo anche come questo ha influenzato le successive codificazioni della materia nei vari stati europei.
RispondiEliminaBrevemente, partendo dall'origine, sappiamo tutti che la materia è particolarmente importante nella tradizione dell'antica Roma. Risale proprio all'antichità la convinzione giuridica che l'erede dovesse subentrare in "universum ius defuncti", cioé nel complesso dei rapporti giuridici del defunto senza alcuna distinzione fra i diversi bene o diritti. Si trattava sostanzialmente del trasferimento di tutte le situazioni giuridiche soggettive del defunto nelle mani dell'erede.
I due termini di universitas e di successio risultano saldamente collegati tra di loro indicando, rispettivamente, il complesso patrimoniale concepito come unico e il semplice mutamento del suo titolare.
Da notare, però, che mentre a Roma si concepiva solo la successione universale, nei paese germanici si intravedeva una frazione del patrimonio prevedendo più successioni universali all'interno di un unico patrimonio costituito da diversi bene e diritti.
La semplicità della successione ab intestato deriva interamente dalla tradizione romana che individua tre gruppi di possibili eredi: heredes sui, adgnati e gentiles. La distinzione fra la successione a titolo universale ed a titolo particolare è probabilmente sorta nell' epoca di Giustiniano.
Il perché la tradizione romana prevedeva tale forma di successione è da rinvenire nell'idea che il patrimonio individuale è legato alla necessità di mantenere la ricchezza all'interno della famiglia e nelle mani di un unico uomo invece di procedere alla sua frammentazione in base alla natura o all'origine del beni.
Possiamo sottolineare che nell'esperienze giuridiche dell'Inghilterra, derivate dal diritto germanico, la common law individuava fin da subito una distinzione di eredità improntata sulla qualità del bene: land property ( la cui successione è dettata da disposizioni legali immutabili) e personal property ( influenzate dalla volontà del testatore).
Molti sono gli stati che nell'età intermedia, avevano ripreso la disciplina romana, abbandonata dopo la caduta dell'impero romano d'occidente, preferendola a quella di origine germanica.
RispondiEliminaAmpia è stata però l'influenza che ha avuto in materia anche la Francia. Essa infatti era il paese europeo che si distaccò nettamente dalla tradizione romana e dal principio dell'unità del patrimonio nella parte del suo territorio in cui vigeva il diritto consuetudinario.
Il code civil del 1804 infatti, dopo aver eliminato tale distinzioni, con l'art 732 sancì la vittoria del principio di unità di successione preceduta dalle parole di Merlin di fronte all'Assemblea Costituente il 20 novembre 1790 : 1° Egalité absolue dans le partages ab intestato; 2° Identité parfaite de tous les biens, sans distinction de meubles et d’immeubles, de propres et d’acquêts; 3° Représentation à l’infini en ligne directe, et jusqu’aux neveux seulement en ligne collatérale. Voilà, en trois mots, tout le système de la nouvelle législation qui vous est proposée.
All'indomani della rivoluzione francese, tale successione inizia a ruotare intorno alla nozione di proprietà collettiva e a quella dell'uguaglianza. Per la prima volta vennero eliminate le distinzioni con riguardo al sesso maschile o femminile dell'erede e alla sua condizione sociale. La legge sembra prevedere uno stato di uguaglianza di tutti i cittadini nella successione testamentaria diminuendo la distinzione fra figli legittimi e naturali. Non bisogna però credere che Napoleone non mirasse ad esaltare la famiglia legittima. Ben presto egli adottò una serie di provvedimenti che disincentivarono le coppie di fatto, sfavorirono tutti coloro nati al di fuori della famiglia legittima prevedendo però che i figli naturali, se riconosciuti, avevano il diritto al mantenimento finché i genitori erano in vita e a un terzo dell'eredità che avrebbero ricevuto se fossero stati legittimi.
Vediamo che tutta la disciplina, fin dall'antichità, ruota intorno alla nozione di proprietà privata come proprietà collettiva della famiglia o di un gruppo sociale più ampio.
Rebecca Lentini
Molto più difficile è determinare con certezza a quanto ammontasse il patrimonio incamerato dal Demanio.
RispondiEliminaMa non vi è dubbio che ,nonostante tutti gli sforzi,una parte di quei beni sfuggì all’amministrazione ;sparì come inghiottita da innumerevoli occultamenti,usurpazioni,appropriazioni favorite dalla umana impossibilità di inventariare ,verificare e prendere possesso in breve volgere del tempo di un patrimonio immenso,le cui proprietà no avevano sempre titoli perfettamente legittimi o facilmente reperibili e confini nettamente stabiliti.
Un altro durissimo colpo era inferto dalla manomorta ecclesiastica;un grande complesso di proprietà fondiaria ,di fabbricati,di canoni e censi veniva mobilizzato ed immesso nel circolo della vita economica del paese…..nuovi proprietari e altri sistemi di conduzione e di amministrazione.Si è ben lontani dai rivolgimenti profondi che l’alienazione dei beni nazionali apportò nella distribuzione della proprietà della Francia degli anni rivoluzionari ,ma se si tien conto della tradizionale immobilità della vita economica dell’Italia meridionale ,specie nel possesso della terra e della conduzione agraria,e si tien altresì che questo notevole trasferimento di proprietà si attuava proprio negli anni in cui altri settori della vita della campagne erano messi in movimento dalle leggi eversive della feudalità,dalla quotizzazione dei demani comunali,dalla affrancazione di censi e canoni,non si potrà negare la grande importanza che l’alienazione dei beni dello Stato ebbe,non solo perché colpiva a fondo la manomorta ecclesiastica,ma anche perché contribuiva ad aprire nuove prospettive di sviluppo all’agricoltura e a creare nuovi rapporti di proprietà,ed alimentava quel fermento di vita nuova che è innegabile risultato dei vari provvedimenti attuati o almeno predisposti nel Decennio francese .Resta fermo però che in quel decennio si fece assai più che non nel periodo riformistico settecentesco e nei seguenti decenni dell’ottocento,nei quali in qualche caso si verificarono addirittura involuzione e regresso. E,per restare nell’ambito della specifica ricera,basti ricordare che nella Restaurazione non solo si restituirono alla Chiesa i beni non alienati,ma,rompendo con la stessa tradizione riformistica del Settecento,le si riconobbe il diritto di “acquistare nuovi possedimenti”(art 15 del Concordato),permettendo il ricostruirsi della manomorta e ponendo “le basi- come dice il Maturi- della futura ricostruzione economica,demografica e morale della Chiesa nel Regno delle Due Sicilie ” ( W .Maturi, Il concordato del 1818 fra la Santa Sede e le Due Sicilie , Firenze ,1929,p.118).
SCUSATE QUESTA è LA PRIMA PARTE!!!!!!
RispondiEliminaQui di seguito passaggi tratti da “Un aspetto dell’eversione della feudalità nel regno di Napoli:la soppressione delle corporazioni religiose e la vendita dei beni dello Stato” di P. Villani
Estratto dalla Rassegna Storica del Risorgimento Anno XLIV – Fascicolo II – III – Aprile-Settembre 1957 Istituto Poligrafico dello Stato
Di solito, quando si parla di eversione della feudalità nel regno di Napoli,si fa riferimento alla legge del 2 agosto 1806 che aboliva la giurisdizione feudale,ordinava la divisione del demanio tra ex feudatari e comuni,riconosceva ai baroni la libera proprietà delle terre che rimanevano loro assegnate dopo la soddisfazione dei diritti dell’universalità dei cittadini.
Ma l’eversione della feudalità si presenta come un ampio processo … di quel processo sono certamente aspetti considerevoli la soppressione degli ordini monastici,l’incameramento dei loro beni al Demanio,l’alienazione di essi a sostegno delle finanze del nuovo Stato e a favore dei sostenitori del nuovo regime.
Certo è che mentre assai timide ed incerte furono le azioni del riformismo borbonico contro la feudalità laica,con maggiore energia si agì contro la feudalità ecclesiastica,come prova,tra l’altro,il concordato del 1741 che limitò le esenzioni e i privilegi goduti dai beni ecclesiastici e inibì l’accrescimento della mano morta. Nè si esitò a sopprimere monasteri e ad incamerarne i beni ed a venderli a privati quando improvvise esigenze richiesero di ricorrere a risorse straordinarie,come avvenne nel 1783 in seguito al terremoto di Calabria,con la formazione della Cassa Sacra.. Anche in questa direzione come in tante altre potrebbe sembrare che il governo dei Napoleonidi non abbia fatto altro che proseguire e condurre a fondo l’azione riformatrice dei Borboni.Impressione sostanzialmente fallace … la differenza fondamentale sta nel fatto che mentre i Borboni agirono molto empiricamente,senza chiarezza di prospettive,sospinti da circostanze,i Francesi avevano un programma … diretto alla creazione di un nuovo tipo di organizzazione statale.
Sicchè alla soppressione degli ordini monastici concorsero,con i motivi immediatamente di ordine finanziario,motivi di natura ideologica che trovano espressione nel preambolo della legge ove si afferma,tra l’altro,che ormai gli ordini religiosi avevano assolto ed esaurito il loro compito e che ”l’amore delle arti e della scienza diffuso generalmente,lo spirito coloniale,commerciale,e militare han forzati tutti i governi d’Europa a rivolgere verso questi oggetti importanti il genio, l’attività ed i mezzi delle loro nazioni” .
L’organicità dei piani di riforma francesi trova conferma anche nel fatto che l’incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici erano legati al provvedimento che richiamava allo Stato la percezione di tutti gli arrendamenti “di qualunque natura fossero e sotto qualunque amministrazione si trovassero”(legge 25 giugno 1806).Il sistema degli arrendamenti,vendita o appalto ai privati del diritto di riscossione delle pubbliche entrate,era anch’esso uno dei residui più scandalosi della vecchia amministrazione finanziaria,che si spiega colla confusa ed incerta distinzione tra ius publicum e ius privatum propria dei tempi e della concezioni feudali.
Si cominciò con l’incamerare i beni degli ordini di S. Benedetto e di S. Bernardo,colpendo così i monasteri più ricchi. Neppure gli ordini mendicanti furono risparmiati e numerosi conventi furono aboliti con decreti particolari tra il Marzo 1807 e il Gennaio 1808. Il colpo definitivo fu arrecato dal decreto del 7 agosto 1809 che ordinava la soppressione di tutti gli ordini possidenti ,e delle congregazioni dei domenicani,dei francescani e dei teatini .Complessivamente ,durante il decennio furono soppressi più di 1100 conventi e monasteri.
CONTINUA NEL COMMENTO PRECEDENTE.....
Ho concentrato l'attenzione su "Storia degli abusi feudali" di Davide Winspeare, scusate la lunghezza, ho cercato di essere il più possibile concisa.
RispondiElimina--
Con una serie di provvedimenti legislativi attuati progressivamente tra il 1806 e il 1808, è stata resa possibile l’abolizione del feudalesimo nel Regno di Napoli: si fa riferimento alle c.d. “leggi eversive della feudalità”, o “di eversione della feudalità”. L’atto che diede avvio a questa importantissima riforma, si riconduce formalmente a Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone, divenuto re di Napoli non appena il regno borbonico passò sotto l’influenza francese: a lui si deve la promulgazione, avvenuta il 2 agosto 1806, della “legge di abolizione della feudalità”, cui deve accompagnarsi il decreto dell’8 giugno 1807 sulla ripartizione dei demani e lo scioglimento delle promiscuità.
La normativa in discussione prevedeva la restituzione alle rispettive sovranità di tutte le giurisdizioni e di tutte le proprietà assoggettate a tributi regi, ed era diretta essenzialmente all’accertamento di alcuni diritti imprescrittibili delle popolazioni. Per questo si rese necessaria, innanzitutto, una ricognizione dei beni demaniali, oggetto nel corso dei secoli di un processo di continua usurpazione. Diverso problema, era quello inerente ai diritti delle popolazioni locali, che coesistevano sui beni feudali in base al principio “ubi feuda, ibi demania”, e che condurranno, in seguito, al riconoscimento di usi civici.
Un così significativo processo di riorganizzazione non poteva non comportare l’ergersi di un enorme contenzioso, tra popolazioni e baroni, ex feudatari. Così Giuseppe Napoleone, con decreto 11 novembre 1807, istituisce un organo, la Commissione Feudale, atta a dirimere le relative questioni (e, precisamente, “nel corso dell’anno 1808 (…) tutte le cause di qualunque natura tra Università e Baroni”).
La Commissione, in circa diciotto mesi di lavoro - che si prolungherà fino al 1° settembre 1810 - e dopo aver esaminato circa trecentomila casi, arriverà ad emettere approssimativamente tremila sentenze, poi pubblicate su un periodico denominato “Bullettino delle sentenze emanate dalla Suprema Commissione per le liti fra i già baroni ed i comuni”, il cui indice di ben 900 pagine farà la sua comparsa nel 1859; le relative massime, per lo più ricognitive dei diritti delle popolazioni, saranno inoltre riconosciute come “monumenti di sapienza” da una Commissione ad hoc nominata, a seguito della Restaurazione, dal borbonico Ferdinando I.
In realtà, l’attività della Commissione non sembrò portare, nei primi tempi, a risultati incisivi: è con l’ascesa al trono di Murat che i suoi membri, diretti da Davide Winspeare, inizieranno a spingere i municipi nel senso di un reale reclamo dei propri diritti nei confronti dei Baroni, e che la legislazione eversiva conoscerà una concreta esecuzione, con l’abolizione di tutti i diritti giurisdizionali e la divisione dei demani, ripartiti in modo da divenire libere proprietà. I risultati, come detto, non tardarono ad arrivare: proprio Winspeare, in “Storia degli abusi feudali”, ricorda le innumerevoli vertenze risolte con successo.
(continua)
RispondiEliminaPubblicata per la prima volta nel 1811, l’opera viene dedicata dal procuratore generale della Commissione al Sovrano, e riporta successivamente al frontespizio una frase tratta dalla prima delle “Epistole” di Boileau, indirizzata Al Re (“Ce sont là les exploits que tu dois avouer; Et c’est par là, grand roi, que je te veux louer”, ovvero “Questi sono i risultati che devi accettare; ed è per quelli, grande Re, che ti voglio elogiare”).
Tale richiamo non sorprende, visto che già in apertura Winspeare si riferisce ai “mali della feudalità”, ed alle “vecchie piaghe del sistema feudale”, che il re avrebbe estirpato, liberando così la Nazione e riuscendo ove nessuno dei suoi predecessori era riuscito. L’autore ricorda le opposizioni alla riforma, “combattuta dai privati interessi di molti i quali mettendosi nel luogo della generalità sembrava che scambiassero la loro utilità particolare colla universale, e che riguardassero come prescritta la potestà di attentare contro alle loro prerogative”.
La generosità del cuore del sovrano, si mostra inoltre, secondo Winspeare, nella volontà di lasciare ai posteri un’immagine della storia della feudalità del Regno di Napoli: “ (…) voglio che il quadro degli abusi passati e la storia degl’inutili sforzi fatti per correggerli facciano tacere le parziali rimostranze dell’interesse privato, e dieno a’ miei sudditi una nuova pruova della mia sollecitudine e de’ miei costanti sforzi per la loro felicità”.
La storia degli abusi della feudalità, storia che abbraccia la vita pubblica e la vita privata delle nazioni, non significa nuda descrizione delle calamità implicite al sistema feudale, ma “esposizione della vita civile delle nazioni nel passaggio che esse hanno fatto dalla coltura alle barbarie, e nel ritorno da questo a quello stato”. I vari passaggi sono particolarmente evidenti nel Regno di Napoli, “il cui sistema di usi e leggi ne’ feudi è stato un’imitazione ed un misto di quelli d’Italia e di Francia”.
Nella prefazione, Winspeare spiega l’intima struttura dell’opera, divisa in quattro libri, ognuno dedicato al racconto di un particolare “stato” della vita civile, tra quelli che hanno segnato dapprima il passaggio al sistema feudale e che ora, hanno condotto all’abbandono dello stesso.
Il primo libro (intitolato “Dell’origine della feudalità e de’ suoi principali avvenimenti insino al IX secolo”) si concentra sul “primo stato de’ popoli d’occidente dopo l’invasione de’ barbari”, che non fu altro che “un composto degli usi e delle leggi delle nuove e delle vecchie nazioni insieme mescolate”, e un “informe ammasso d’avvanzi di colte istituzioni e di barbarie”; tratta dunque dello stato delle province d’Occidente prima e dopo le invasioni barbariche, fino ad arrivare al punto in cui “possono aversi per spiegate tutte le forze del sistema feudale”.
Il secondo libro enuclea i mali della feudalità con riferimento alla vita pubblica delle nazioni, guardando ai governi che si sono succeduti nelle singole Nazioni ed esplicitando come l’aristocrazia feudale abbia preso il sopravvento rispetto agli stessi.
Il terzo libro, ritenuto “parte principale dell’opera”, presenta un’esposizione dello stato delle leggi, degli usi e dei costumi di ciascuna nazione “durante i rigori della feudalità”, analizzando come tali cause abbiano inciso sulla formazione del diritto nazionale.
L’ultimo libro elabora la fase del ritorno a “forme civili e alla coltura”, ma anche degli “avvanzi di usi e di costumi che esse (scil. le nazioni) hanno ritenuto del loro antico stato”.
Di particolare interesse è l’introduzione (che consta, nella prima edizione, di circa un centinaio di pagine), nella quale Winspeare introduce il motivo conduttore che l’ha spinto a delineare una storia generale della feudalità, ovvero la situazione nel Regno di Napoli, in statu quo res erant prima della dominazione francese e della realizzazione della legislazione eversiva.
(continua)
RispondiEliminaL’origine sistema feudale è vista quale prodotto della “rivoluzione che divise le province dell’Impero Romano, che spinse nuovamente l’Europa nel seno della barbarie, e che cancellò tutte le vestigie della coltura e delle leggi latine”. Si parla di un mostro uscito dalle foreste barbariche ed allevato dall’ignoranza per tredici secoli, finché la rinascita della cultura in Europa ha iniziato a perseguitarlo.
Le nazioni germaniche, dopo aver diviso le masse conquistate come se fossero state prede, hanno introdotto un sistema di amministrazione interna incentrato sul potere militare (dal quale sono discese le idee di gerarchia civile e di divisione dei poteri interni) e sulle esigenze della guerra: i capi delle tribù divennero capi militari, gli anziani furono appellati “signori”, la misura delle imposte cominciò ad essere livellata sulla base dei bisogni continui della guerra interna ed esterna, così come “la disciplina militare d’una armata collettizia divenne il modus di legislazione civile”.
Nelle diverse province romane conquistate, questo sistema di amministrazione assunse connotazioni particolari: di qui, partendo da una stessa radice comune, cominciano a svilupparsi diversi tipi di feudalità (“Una è l’epoca, ed uno è l’avvenimento, da cui dee ripetersi l’origine del sistema, ma le sue leggi e i suoi effetti dipendono da tante cause”). Ciononostante, esistono dei caratteri essenziali della feudalità rinvenibili tanto nella vita pubblica, quanto nella vita privata dei cittadini.
Un primo carattere è quello della rivalità delle diverse parti che compongono lo Stato. Tale rivalità ha prodotto inoltre due effetti principali: da una parte, sedizioni e guerre intestine; dall’altra, la resistenza dei feudatari alla sovranità e all’ordine pubblico.
Un secondo carattere, riguarda l’assenza di un ordine pubblico (per via della frammentazione dell’autorità), nonché dell’idea di giustizia (“perché le nuove nazioni insieme con le lettere distrussero le leggi e gli usi), da parte del governo feudale. Questo risulta chiaro se si guarda allo stato delle leggi civili.
Un ulteriore carattere, concerne invece la somiglianza dello stato delle cultura morale, contraddistinto da una sostanziale uniformità.
Momento fondamentale per la rinascita della cultura delle nazioni, si individua nel dodicesimo secolo, quando si “riaccesero le fiaccole del sapere utile”: al di là degli studi sparsi per l’Italia di medicina, di scienze matematiche, di filosofia, si sottolinea l’importanza dello studio del diritto romano e del canonico (“che introdusse idee comuni sui diritti delle persone e della proprietà (…) e fu la cagione più efficace per consolidare l’ordine interno in ciascuna nazione”) , nonché della connessione ristabilita tra tutte le parti del diritto civile, tramite la compilazione delle consuetudini, che conferì la veste di diritto certo agli usi che avevano fino ad allora formato il diritto delle nazioni (collezione che in Italia “contenne le regole per la successione e pe’ diritti ed obbligazioni vicendevoli del Sovrano e de’ Signori, oggetti (…) regolati dalle consuetudini particolari di ciascun regno e di ciascuna città”).
(continua)
RispondiEliminaAnche per l’abbattimento del sistema feudale, Wispeare rileva come stessi mezzi, abbiano agito diversamente in base ai territori di riferimento: per esempio in Italia e in Francia, l’istituzione della comunità fu la prima base della libertà civile e del rovesciamento del sistema feudale. Un altro elemento fondamentale, derivato dalla ripresa dell’analisi del diritto romano, è la conoscenza delle regalìe, o diritti sovrani, che aiutarono a comprendere “quali fossero le diverse parti del dominio pubblico e del privato”.
L’autore passa poi dal generale al particolare, dipingendo un excursus dell’evoluzione della feudalità nel Regno di Napoli, il quale, al contrario delle altre Nazioni (ove “i mali vi sono stati violenti, ma più brevi”), ha visto l’anarchia feudale suddividere in piccolissime parti il territorio su cui ha agito, a fronte di “movimenti interni, che altrove meritano il nome convulsioni politiche”, che hanno preso il carattere di fazioni sediziose.
Passando attraverso il racconto della dominazione sveva, normanna, ed angioina, fino ad arrivare al governo viceregnale, che precedette l’instaurazione della dinastia borbonica, Winspeare delinea il complesso degli apparati feudali, parlando di donativi, di stato dei comuni, del brigantaggio, della venalità, per arrivare allo status quo ante l'emanazione della legge di eversione della feudalità: gli attuali feudatari (“diversi dagli antichi per la coltura del loro animo, pe’ costumi e per lo spirito pubblico onde sono animati”), non esercitavano più i diritti dei feudi, tuttavia rimanevano attaccati a tutto ciò che poteva conservare le loro rendite. Per questo le masse continuavano ad essere sottoposte ai medesimi abusi, e che i diritti sostenuti nella pratica, venissero condannati in teoria.
Dal punto di vista dei diritti personali, si mantenevano pratiche come le opere dei rustici nei fondi baronali, la somministrazione degli animali per la coltivazione, la riscossione delle rendite baronali, il peso di alcuni servizi domestici, l’ufficio di corriere et similia; gli altri diritti personali si erano trasformati in prestazioni di denaro.
Le proprietà che rientravano in un determinato feudo d’altro canto, erano sottoposte ancora a quinte, decime, “terraggi” (ossia censi in frumento), ed altre prestazioni in favore dei baroni. Su queste terre inoltre i baroni avevano il diritto di pascolo, né i fondi potevano essere chiusi o recintati, senza offendere il diritto del barone.
A questi mali comuni a tutti i feudi, si aggiungevano inoltre alcune situazioni particolari: in terra d’Otranto per esempio, tutti i prodotti naturali (come pietre, acqua piovana e sterco), erano sottoposti ad un vettigale universale in favore dei baroni; vi era poi la situazione inerente ai feudi “albanesi” e alle colonie greche, stabilitesi in tutto il meridione e legate da contratti per lo più taciti con i baroni, rispetto ai quali si trovavano in una condizione di servaggio: nulla, secondo Winspeare, era stato fatto per stabilire la regolarità e la giustizia di siffatte convenzioni.
(continua)
RispondiEliminaNon migliore la situazione dei comunalia (o demani comunali), che si trovavano “o illegalmente alienati, o ingombrati di servitù e di prelazioni che i baroni vi aveano a loro favore costituite”, e delle acque pubbliche (“i fiumi e le acque perenni erano state di esclusiva proprietà dei baroni, perché la regalia erasi (…) estesa a tutte le acque fluenti. I baroni (…) avevano per analogia dell’assurdo esteso il loro diritto ad ogni acquedotto, a’ laghi, alle acque stagnanti, alle acque private ed anche alle piovane”).
In definitiva, ci si chiede se sia veramente possibile porre fine alla feudalità. Se da una parte si riconosce la ciclicità con la quale le nazioni cadono in preda alla barbarie, abbandonando la cultura, dall’altra si afferma che il passaggio dall’una alle altre è dovuto agli errori in cui la popolazione cade, e sembra che, nei tempi attuali, “se questa è l’eterna natura dei feudi (…), ce ne garantiscono i nostri costumi, la coltura a cui siamo nuovamente pervenuti, lo spirito delle nostre istituzioni civili”. A fronte della continua anarchia “che avvelena gli elementi della società civile”, e che potrebbe ricondurre ad un ritorno del sistema feudale, si chiede alle nazioni di tutelare i Principi, che già una volta hanno distrutto i feudi, e di guardare all’esperienza raccontata nella presente opera.
Concludo riportando i collegamenti al testo, disponibile nelle prime due edizioni, del 1811 e del 1883.
Prima Edizione del 1811:
http://books.google.it/books?id=9pRAAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=davide+winspeare&hl=it&ei=jmKcTeFRkdDjBvfmhIkH&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=1&ved=0CCwQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false
Seconda Edizione del 1883:
http://www.archive.org/stream/storiadegliabus00winsgoog#page/n7/mode/2up
Alessia Guaitoli
Visto che si è parlato molto di proprietà, mi sembrava interessante questa riflessione sulla concezione di società nel corso dei secoli…
RispondiEliminaTante proprietà quante sono le esperienze giuridiche succedutesi nel tempo?
Il concetto di proprietà non ha mai trovato una definizione chiara e concisa, nemmeno attualmente nella nostra Costituzione (art.42 riconosce e garantisce la proprietà privata) e nel nostro Codice Civile (art.832, ne indica il contenuto: il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico). Provando a ripercorrere le origini di questo, che oggi è definito dal diritto privato, diritto reale, si possono analizzare le concezioni “proprietarie” che lo hanno formato.
Partendo dai giuristi romani, vediamo che non hanno definito il diritto di proprietà, ma nelle fonti ne troviamo accennati gli elementi. Nel Digesto infatti si dice che ciascuno è suae rei moderator atque arbiter e riguardo il contenuto che dominium est ius utendi et abutendi, quatenus iuris ratio patitur. Nel corso dei secoli troviamo molti richiami al potere di disporre. Ma la massima affermazione di questo diritto si trova proprio nel Code Napoleon all’art.544 che afferma che la propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la manière la plus absolue. Tuttavia la proprietà ha subito diverse critiche. Prima fra tutte la nota frase di Prouhdon “la proprietà è un furto”. Ma anche Toqueville sosteneva che la rivoluzione francese avesse abolito tutti i privilegi e distrutto tutti i diritti esclusivi, tuttavia che ne avesse lasciato sussistere uno: la proprietà. L’opinione riguardo ciò di Paolo Grossi (Quaderni fiorentini, 1988, n.17) è che la proprietà giuridica è diversa dalla concezione generica, perché è un quid qualitativamente diverso perché i giuristi ne colgono solo certi aspetti e non altri. Infatti per loro la proprietà è soprattutto un potere sulla cosa, a differenza degli economisti, per i quali essa è ricchezza, rendita dalla cosa. Perciò il catasto è formalmente un procedimento giuridico, ma con finalità e contenuti esclusivamente economici. Per Grossi inoltre la proprietà non è solo un passaggio storico, ma prima di tutto una mentalità. Questa si lega necessariamente ad una visione nell’uomo nel mondo e ad una ideologia, a causa degli interessi vitali dei singoli e delle classi. Anche se da un punto di vista sociale l’Occidente non ha mai rovesciato il caposaldo della proprietà individuale: continuità formale di un latifondo dall’età classica per tutta l’età barbarica fino al Rinascimento del XII secolo. Anche se nel Medioevo troviamo forme diverse dalla proprietà: gewere, vestitura, saisine, istituti per cui sopra la stessa terra potevano avere diritti più persone e tutte ugualmente tutelate dall’ordinamento. Tuttavia non si smentisce il dominium dell’antico titolare catastale, ma lo si devitalizza lasciando che venga espropriato nei poteri imprenditoriali dal gestore e non dal proprietario.
...continua...
...continua...
RispondiEliminaMa termini come apparenza, uso, godimento ed esercizio riescono nell’Alto Medioevo ad essere fonte e sostanza di un grande numero di assetti giuridici atipici, caratterizzati da una radicazione nel reale. Nel Rinascimento giuridico si può trovare un filo conduttore nel Dominium utile, in cui la realtà del godimento viene rivestita dalla forma del dominium. Da qui l’esempio di Grossi di un contadino vestito con un abito da cerimonia per evidenziare la contraddizione di un godimento all’interno del dominium. Egli afferma che il dominio utile non è altro che la traduzione in termini giuridici di una mentalità: quella possessoria altomedievale. Tuttavia dal ‘300, per terminare nell’800, assistiamo ad un lungo processo di rinnovazione che culmina con il rovesciamento della medesima mentalità. Mentre dunque l’ordinamento medievale aveva cercato di costruire un sistema oggettivo di proprietà, il moderno tende a scardinare le figure giuridiche dal reale a favore di una ricerca di autonomia. Troviamo il pensiero di Locke che considera la proprietà come un diritto naturale dell’uomo, insieme alla vita, uguaglianza e libertà. Perciò si trovano molteplici figure nobiliari che in realtà però non hanno più le loro terre. Un esempio di questa classe “parassita” si può notare ne “La Locandiera” di Goldoni: nobili di stirpe, ma non di denaro. Essi, come il Conte ed il Marchese nella vicenda goldoniana, pretendono privilegi e servigi pur non lavorando.
Perciò possiamo notare come il concetto di proprietà sia mutato nel corso dei secoli a causa del circostante contesto storico-sociale, pur rimanendo sempre un diritto su di un bene.
Ylenia Coronas
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaHo tovato un documento interessante riguardante una decisione della Commissione feudale nella causa fra il Comune di Tuglie(Lecce) e l’ex feudatario Duca di Minervino sul diritto di decima.In primo luogo esso esamina la situazione storica delle terre dell’attuale comune in provincia di Lecce,dalla prima dominazione francese con Luigi XII,nel 1515,fino anche a dopo il dominio Napoleonico;infine riporta la sentenza della Commissione istituita con decreto regio ,che dirime la controversia fra l’ex Duca e il comune.
RispondiEliminaIn Francia il sistema feudale fu definitivamente stroncato la notte del 4 Agosto 1789,la “gran nuit”,ad opera dell’Assemblea Costituente approvando la disposizione :”L’Assemblèe Nationale dètruit entièrement le régime féodal”;a titolo gratuito solo i titoli onorifici,mentre furono condizionati a riscatto (rachat) tutti quelli di natura reale e obbligatoria.
Fra il 1806 e il 1808 vengono emanate dal nuovo Re Giuseppe Bonaparte, le così dette “leggi di eversione della feudalità”,volute da Napoleone ed emanate nei territori satelliti,al fine di abolire quel vecchio sistema che bloccava l’economia degli Stati italiani.Nel Regno di Napoli grazie al Catasto borbonico,furono catalogati tutti questi privilegi feudali e grazie all’opera della Commissione feudale,venne stabilito l’ammontare dei proventi di queste terre,fatte tornare sotto la giurisdizione centrale dello stato.In Italia decaddero tutti i privilegi,i proventi baronali,le giurisdizioni,sbloccando l’immobilismo che aveva caratterizzato il nostro paese,e in special modo il sud,rivitalizzando l’assetto economico-sociale.
Fine quindi della mortificazione dell’agricoltura perpetuata per anni dalle imposizioni della decima e dal fenomeno della mano morta ecclesiastica,in luoghi di grande ricchezza,come la produzione olearia della terra d’Otranto.
Nel 1809 sale al trono Gioacchino Murat,e il 16 Ottobre di quell’anno si rende necessario per la provincia di Otranto l’emanazione di un decreto al fine di vietare «qualsiasi diritto feudale degli ex baroni ad eccezione delle decime del grano, orzo, avena, bambagia, lino, fave, mosto, vino e olive, rimanendo vietata qualsiasi altra esazione di decime».Non fu un processo immediato l’abbattimento del feudalesimo,non erano pronti i salentini,come anche il resto della popolazione,a dire addio ad un sistema vigente da secoli.
Con un ulteriore decreto,si aboliscono inoltre gli ordini religiosi.
Le terre del Regno di Napoli quindi,rientrono nella sovranità dell’amministrazione comunale,ma non ci furono dei veri e propri vantaggi per i contadini,ci fu semplicemente un passaggio fra vecchi padroni ad altri,cioè i nuovi arricchiti che non avevano alcun interesse se non quello di sfruttare la terra al massimo della sua produttività.Lo scontento non cessò quindi.
RispondiEliminaLa questione dei terreni demaniali da concedere ai contadini sotto pagamento di un canone perpetuo,sarà costante problema sociale per tutto il decennio francese,finendo per vanificare gli sforzi della Riforma agraria introdotta dalla legge del 1806.Gli usi civici che gravavano su questi territori,di provenienza feudale,ecclesistica,comunali e promiscui,erano diritti che le popolazioni non volevano rischiare di perdere,e la loro opposizione,insieme a quella dei grandi proprietari,vanificò il tentativo di modernizzazione che si aspettavano.
Si possono rinvenire degli aspetti positivi in queste leggi?
Secondo lo studioso Tommaso Pedio,ci fu comunque una discreta liberalizzazione dei beni fondiari a prezzi più accessibili.
Le ragioni dello scarso successo della riforma possono essere ricercate oltre che nell’opposizione marcata,anche nella perifericità dei territori in questione,specialmente nel basso Salento,nella circolazione di beni solo per soddisfare i desideri voluttuari dei baroni,che non consetì la formazione di un vero e proprio mercato interno.
Effetti positivi si rintracciano principalmente nell’assetto sociale,nei rapporti centro-periferia migliorati,nella evoluta amministrazione e nell’aumento di partecipazione politica rispetto al passato.
L’aspetto economico,è tutto un altro dicorso:l’accaparramento delle terre finalmente disponibili fu a vantaggio dei nuovi ricchi,e non di certo del ceto povero.
Non c’era certo l’intenzione di svilire la proprietà,con la promulgazione delle leggi di eversione della feudalità,ma di opporre i diritti come gli usi civici contro quelli dei signori feudali,ma la conseguenza non fu altro che quella di lasciare la proprietà civile in capo ai soliti maggiorenti locali.
Abolendo i diritti proibitivi e le giurisdizioni,meno erano le entrate,costringendo i grandi proprietari a spezzettare le proprietà in piccoli possedimenti,più gestibili,sogette a diversificazione colturale.
Da riportare la tenace opposione dei nuovi proprietari verso gli ex feudatari,rivendicando l’abolizione delle decime,che denota un cambio nelle relazioni sociali,ribaltato.Nasce una società diversa!
Il processo quindi,non fu completo,e nel 1808 si rese necessaria l’istituzione di una Commissione che calcolasse i diritti in possesso dei feudatari e che dirimesse le questioni fra Università ed ex baroni.la commissione feudale composta da Dragonetti, Davide Winspeare, Giuseppe Raffaelli, Giuseppe Franchini e Domenico Coco,ebbe vita molto breve,ma lavorò intensamente fino al 1’ settembre 1810.La sua funzione fu più politica che giudiziaria,animata da sentimenti di pacificazione sociale.Anche Tuglie fu interessata dall’operato di questa Commissione,anche perché l’ex feudatario Francesco Antonio Cariddi aveva incentivato il popolamento nel suo vecchio feudo,assegnado parecchi suoi possedimenti in cambio di un canone.
Quindi Comuni(ora si chiamano così le Università) si adoperarono ad adire azioni per veder iconosciuti i loro diritti e applicate le leggi.
Un esempio che qui riporto,per l’appunto,riguarda proprio la Tuglie, dall’Archivio di Stato di Lecce e nella Decisione della Commissione Feudale del 16 luglio 1810 che qui si riporta:
RispondiEliminaDECISIONE DELLA COMMISSIONE FEUDALE
NELLA CAUSA FRA IL COMUNE DI TUGLIE
E L’EX FEUDATARIO DUCA DI MINERVINO
PER L’ESPROPRIO DELLE DECIME
Gioacchino Napoleone Re di Napoli e Sicilia Principe e Grand’Ammiraglio dell’Impero Francese
La Suprema Commissione Feudale ha pronunziata la seguente sentenza nella causa fra il Comune di Tuglie in Provincia di Lecce, Patrocinato dal Sig. Luigi Donadeo e l’ex feudatario Duca di Minervino, Patrocinato dal Sig. Cav. Pietro Andreotti sul rapporto del Signor Giudice Pedicini.
L’Università di Tuglie in Provincia di Lecce ha dettato contro del suo ex feudatario Duca di Minervino:
1°) che debba esibire il titolo dell’esazione, che sta facendo della decima dell’olio, grano, orzo, avena, ceci, fave, lino e vino, e non esibendolo, debba astenersi da farne l’esazione;
2°) che debba astenersi da esigere la decima dell’orzo in erba, e la decima ancora dei limoni, portogalli, ed una dei pergolati;
3°) che debba astenersi ancora da esigere da un medesimo fondo canoni e decima;
4°) che debba pagare la bonatenenza.
La Commissione, intese le parti, ed il Regio Procuratore;
Considerando, su dette tre prime dimande, che Tuglie anticamente era un feudo disabitato;
Considerando, che secondo la più antica informazione fiscale presa per causa di rilevi, una del 1649 e l’altra del 1684, il Feudatario esigeva la decima degli olivi, vino mosto, grano, orzo e lino;
Considerando, che uno stesso feudo non può essere soggetto a doppia prestazione di canone, cioè, e decima, ma l’ex feudatario può scegliere la prestazione maggiore;
Considerando, che secondo il Decreto Reale del 16 ottobre dello scorso anno l’esazione della decima delle vettovaglie si deve fare su le Aje in generi triturati, non già quando sono in erba, e quella del vino mosto in rispettivi palmenti;
Considerando, che avendo il citato Regio Decreto fissati i generi decimabili, ogni altro genere non espressato nel Decreto suddetto deve essere escluso;
continua....
RispondiEliminaConsiderando, che l’ex feudatario per li istremi catastali deve pagare la bonatenenza a norma dell’ultimo general catasto, e tutti gli altri pesi straordinari dal tempo, che furono imposti;
Considerando che nel 1657 fu stipulata una convenzione tra l’Università di Tuglie, ed il Feudatario di quel tempo, e fu stabilito, che costui dovesse essere esente dal pagamento della bonatenenza, ma dovesse cedere a quella due bassi, ed il carcere;
Considerando, che per lo stesso oggetto della bonatenenza esistono negli atti due relazioni fatte d’ordine dell’abolita Regia Camera, una dal Razionale Orlando, e l’altra dal Razionale Bruno;
Definitivamente decide e
Dichiara di competere all’ex feudatario Duca di Minervino il diritto di esigere secondo lo stato dell’attuale possesso la decima degli olivi, del vino mosto, del grano, lino ed orzi, esclusa la bambagia, le fave, l’avena ed ogni altro genere.
Ordina, che dallo stesso fondo non possa esigere doppia prestazione, ma abbia la libertà di decimare sul prodotto maggiore, escluso ogni altro genere.
Si astenga, lo stesso ex feudatario dall’esigere la prestazione della decima dell’orzo in erba, ma tanto dell’orzo, che delle altre vettovaglie, né faccia l’esazione su le Aje in generi triturati. Benvero chi faccia le sue veci debba essere autorizzato 24 ore prima della tritura.
Si astenga dalla decima di limoni, di portogalli, e dell’uva delle pergolate, ma gli sia lecito di esigere la decima del vino mosto delle vigne, e nei rispettivi palmenti.
Si proceda alla discussione delle due relazioni dei Razionali Orlando e Bruno per l’oggetto della bonatenenza sul rapporto, che dovrà farne in Commissione il Razionale Girolamo Catalano; ed intanto l’Università di Tuglie restituisca all’ex feudatario i due bassi, e le carceri, che costui le cedè colla convenzione del 1757.
Nulla per le spese della lite.
Fatto in Napoli il dì 16 luglio 1810.
Dai Signori Dragonetti, Presidente.
Giudici Saponara, Martucci, Franchini, Pedicini.
Presenti il Regio Procuratore Generale Sig. Winspeare.
Comandiamo ed ordiniamo a tutti gli Uscieri che ne saranno richiesti di porre in esecuzione la presente Sentenza.
Si autorizzano i Procuratori generali; i Procuratori ff.; i Tribunali di massima istanza di darsi mano.
Si autorizzano i Comandanti ed Ufficiali della Forza Pubblica di prestarsi mano armata, allorché ne saranno legalmente richiesti.
In fede di che ne abbiamo sottoscritta la presente.
Dragonetti, Presidente.
Pedicini, Giudice.
De Marinis, Cancelliere.
Addì, 17 di novembre 1810.
Si registri a scredito. Winspear.
Giuseppe De Marinis: Cancelliere.
Suprema Commissione Feudale.
Regia Magistratura e Demanio - Napoli.
Al pari di molte altre sentenze, la Commissione Feudale si preoccupava di verificare la reale esistenza del diritto di decima concessa da privilegio regale o per immemorabile possesso.
A differenza delle francesi, le leggi eversive della feudalità nel Regno di Napoli […] hanno serbato agli ex-baroni tutto quello che essi possedevano per dominio fondiario, anche feudale, ed hanno solo abolito tutto ciò che aveva origine da personalità e giurisdizione .
Per quanto concerne Tuglie, si ritrova la citazione del duca di Minervino contro il Comune di Tuglie, datata Lecce 22 marzo 1812:
Continua e finalmente finisce....
RispondiEliminaIl Regio Procuratore presso il Tribunale di prima istanza
della Provincia di Terra d’Otranto
Al Sig. Intendente
della Provincia medesima.
Signore,
il Sig. Duca di Minervino ex Barone di Tuglie in questa Provincia ha citato quel Comune di Tuglie a comparire nel Tribunale per condannare i concessionari morosi al pagamento del canone e delle decime sui beni rustici, ed il solo canone, e delle decime in beni specifici, ed il solo canone nel suolo delle zone agricole di che trattasi.
Il Cancelliere
Firmato: illeggibile
È presente ancora un riferimento al ricorso di Antonio Gonzaga, Francesco Longo e altri che chiedono di non essere molestati da parte del feudatario:
Taranto, 22 maggio 1815
AL SIG. PROCURATORE REGIO
presso il Tribunale di prima istanza della Provincia di
Lecce.
Signore,
vi compiego un ricorso di Antonio Gonzaga, Francesco Longo ed altri manovali di Tuglie, i quali essendovi coloni nel demanio ex feudale di Neviano che dicono di aver migliorato, domandano di non essere molestati nel possesso delle loro colonie. Io vi prego di provvedere sull’esposto dei terreni di Neviano e del Giudicato della Commissione Feudale impegnato nella causa tra il Comune di Neviano e l’ex Feudatario del Circondario.
Gradisca i sentimenti della mia perfetta stima e considerazione.
Firmato
Antonio
Altre tensioni dovettero sorgere qualche tempo dopo se da Palagiano parte un’altra missiva, datata 29 novembre 1816, con la quale si demandava alla diligenza del Procuratore Regio la soluzione di eventuali problemi insorti tra il Comune di Tuglie e l’ex-feudatario Duca di Minervino:
Palagiano, 29 novembre 1816
AL SIG. PROCURATORE REGIO
presso il Tribunale di prima istanza della Provincia di
Lecce.
Signore,
Vi compiego la copia di una decisione profferita dalla già Commissione Feudale nella causa tra il Comune di Tuglie ed il suo ex feudatario Duca di Minervino.
Io vi prego di farla pubblicare ed eseguire sotto la vostra diligenza, provvedendo sulle questioni che possano aver luogo tra le parti.
Gradite i sentimenti della mia distinta stima.
firmato
Antonio