domenica 20 marzo 2011

Gli illuministi e la “lotta contro l’interpretazione”

  • Un contributo di Sandro Notari


    Uno dei bersagli della polemica degli illuministi era la lotta contro l’interpretatio iudicis.

  • La condanna dell’interpretazione giudiziale era in sostanza condanna all’interpretazione arbitraria che trasformava il giudice in legislatore (Beccaria, Verri). Più cauto Genovesi, maestro degli illuministi napoletani.

  • Gli illuministi ricorrevano frequentemente all’aforisma baconiano: «Si iudex transiret in legislatorem, omnia ex arbitrio penderent».

  • Legalità versus equità. Gli illuministi identificavano il diritto con la manifestazione legislativa (positivismo). La giustizia che ricorreva all’equità rendeva confuso, contraddittorio, incerto il diritto.

  • La principale aspirazione era rivolta alla certezza del diritto, ad una facile prevedibilità della sentenza, che richiedeva la semplicità del sistema.

  • Nella battaglia contro interpretatio quale fatto creativo di norme (teorizzato e praticato nel diritto comune storico) il principale bersaglio è l’interpretazione giudiziale, ma la polemica degli illuministi si estendeva anche al ricorso all’auctoritas doctorum, alla dottrina.

  • Il programma, che coerentemente porterà alla codificazione del diritto, discendeva dalla (dichiarata) lettura di Montesquieu: il quale aveva teorizzato l’attribuzione ad organi separati delle funzioni sovrane, e quindi il superamento della precedente concezione unitaria della sovranità.

  • Siamo alle origini di uno dei principi cardine dello Stato di diritto.


Testi di riferimento:

P. Verri, Sull’interpretazione delle leggi, da «Il Caffé», 1765-1766:

«Se il giudice diventa legislatore, la libertà politica è annichilita il giudice diventa legislatore sì tosto che è lecito interpretar la legge; dunque si proibisca al giudice l’interpretar la legge; dunque si riduca ad esser mero esecutore della legge; dunque eseguisca la legge nel puro e stretto significato delle parole e nella materiale disposizione della lettera».


“Interpretare vuol dire sostituire se stesso al luogo di chi ha scritto la legge ed indagare cosa il legislatore avrebbe verisimilmente deciso nel tale o tal altro caso su cui non parla chiaramente la legge. Interpretare significa far dire al legislatore più di quello che ha detto, e quel più è la misura della facoltà legislatrice che si arroga il giudice. Su due casi può aver luogo la interpretazione: il primo caso è quando nella legge non sia preveduto l’affare che si deve decidere e che sia affare nuovo, sul quale non siavi legge alcuna chiara e manifesta; il secondo caso è quando nel corpo delle leggi vi siano due diversi principii, fra i quali sia dubbio quale dei due debba diriggere la decisione dell’affare. Nella prima supposizione il giudice, col pretesto d’interpretare la mente del legislatore, realmente fabbrica una nuova legge sulla quale appoggia una sentenza, e conseguentemente il legislatore ed il giudice coincidono perfettamente nella stessa persona. Nella seconda supposizione poi il disordine è meno palese, ma non però vi sta meno: poiché il giudicare con leggi fabbricate di propria opinione, ovvero il giudicare sulle leggi legittimamente promulgate bensì, ma molteplici, varie, opposte, ed avere la scelta libera di prenderne ora l’una ed ora l’altra, sulle quali stabilire sentenze opposte in casi altronde simili, è presso a poco, quanto alla sicurezza e libertà politica, la cosa medesima, e il giudice che abbia facoltà di scegliere più una legge che un’altra per giudicare un caso è realmente legislatore, essendo che ei dà forza di legge più ad un testo che ad un altro della legge istessa. Dunque l’interpretar la legge fa diventare legislatore il giudice e confonde le due persone del legislatore e del giudice, dalla assoluta separazione delle quali dipende essenzialmente la libertà politica d’una nazione».


C. Beccaria, Dei Delitti e delle pene, cap. IV (1764):

«Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni... Lo spirito della legge sarebbe… il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll’offeso e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de’ miserabili essere la vittima dei falsi raziocini o dell’attuale fermento degli umori d’un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni. Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpretazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione dell’incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti».


Montesquieu, De l'esprit des lois, 1748

L. VI, cap. III, Dans quels gouvernements et dans quels cas on doit juger selon un texte précis de la loi.

«Più il governo si avvicina alla repubblica, più la maniera di giudicare diventa stabile; ed era un difetto della repubblica di Sparta che gli èfori giudicassero arbitrariamente, senza che vi fossero leggi per dirigerli. A Roma, i primi consoli giudicavano come gli èfori; se ne avvertirono gli inconvenienti, e si fecero leggi precise.


Negli Stati dispotici non vi è legge: il giudice è egli stesso la regola. Negli Stati monarchici vi è una legge: laddove è precisa, il giudice la segue; laddove non lo è, ne ricerca lo spirito. Nel governo repubblicano, è nella natura stessa della costituzione che i giudici seguano la lettera della legge. Non è lecito interpretare una legge a danno di nessun cittadino, quando si tratta dei suoi beni, del suo onore, o della sua vita».



L. VI, cap. XI, De la constitution d’Angleterre

«Les juges de la nation ne sont que la bouche qui prononce les paroles de la loi des êtres inanimés qui n'en peuvent modérer ni la force, ni la rigueur. …. En général la puissance de juger ne doive être unie à aucune partie de la législative»




27 commenti:

  1. Molto interessante questo contributo, mi ha fatto riflettere...
    Riguardo la "svolta" illuminista, spicca soprattutto il pensiero di Cesare Beccaria, assiduo frequentatore del Caffè, una delle prime botteghe luogo d'incontro e di discussione di persone di diversi ceti sociali. Dal nome di tale posto si diffonde infatti anche l'omonima rivista, con uscita ogni dieci giorni, fino al 1766, nella quale spiccano articoli dei fratelli Verri, di Beccaria e di altri numerose menti illuministe. E' anche curioso ricordare come il caffè nascesse quale simbolo di contrapposizione al vino, celebre rappresentante dell'ebbrezza e della follia. Il primo era infatti considerato amico della riflessione e della meditazione. Fu proprio da questa impostazione che si consolidò il pensiero di Beccaria, soprattutto in merito al diritto penale. Il lume del pensatore milanese dunque pone la società del '700 di fronte ad una realtà punitiva nuova, in cui le punizioni non si basano sulla durezza corporale, bensì sulla loro efficienza. Uno dei piú gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un'utile virtú, dev'essere accompagnata da una dolce legislazione. Si parla a tal proposito di legislazione dolce, spiegata, sempre nel capitolo 27 del trattato di Beccaria, come una normazione in cui non ci siano abusi della propria posizione gerarchicamente superiore nei confronti di una inferiore. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi. L'esempio del tiranno è perciò l'emblema di ciò che porterà il pensatore a sostenere la proporzionalità delle pene e l'abolizione della tortura, vista come mezzo di una "rozzezza" antica e non efficiente (crudeltà consacrata all'uso delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo), in particolar modo se il delitto è incerto, perchè non devesi tormentare un innocente, perchè tale è, secondo le leggi, un uomo i cui delitti non sono provati. Per questo motivo Cesare Beccaria auspica ad una codificazione che rappresenta la prevenzione degli abusi e garantisce in larga parte la certezza del diritto. Così vengono esclusi i comportamenti soggettivi dei giudici, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni dei cittadini e giudicarle. Con ciò lo scrittore illuminista risolve un problema assai diffuso in quel tempo in cui, per riprendere il discorso dell'altro giorno sul Manzoni, a sapere maneggiare bene le grida nessuno è reo o innocente per l'avvocato Azzeccagarbugli. Con Beccaria le leggi tornano ad assumere la loro originaria funzione ed è in questo aspetto che il pensiero illuminista si ricollega alle teorie utilitaristiche e umanitarie. Da ciò l'innovazione maggiore dell'abolizione della pena di morte, poichè non produttiva di effetti se non quello dell'assuefazione. Ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà è terribile. Una riforma penale, ma prima di tutto di pensiero, è considerabile quindi quella di Cesare Beccaria, che ci induce a pensare il mondo illuministico sotto un'ottica più razionale e concreta che però sia anche capace di ottenere riscontri nella società che lo circonda.
    Questo è uno spunto per parlare del grande passo avanti del diritto penale grazie a Cesare Beccaria, se troviamo altri collegamente mi fa piacere incuriosirmi :)
    Ylenia Coronas

    RispondiElimina
  2. Nell'approfondire il PRINCIPIO DI LEGALITà, che si afferma appunto nell'età dei "lumi", ho trovato interessante la NASCITA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, organo di legittimità che, ignorando le questioni di fatto, verifica la corretta applicazione delle norme di diritto (sostanziale e processuale) da parte del giudice che ha pronunciato la decisione impugnata.
    Le origini si fanno infatti risalire alla Rivoluzione Francese, quando fu istituita con decreto 27 Novembre 1790, sotto il nome di “Tribunal de Cassation” (l’attuale denominazione “Cour de Cassation” risale al 1804). In Francia, già dal 1578 esisteva il Conseil de Parties, inteso come sezione speciale del Consiglio del Re, al fine di assicurare e conservare la legge, ma erano ben note ormai le considerazioni di Montesquieu circa la separazione dei poteri, a seguito delle antiche lotte fra il sovrano e i parlamenti. Il problema dell’istituenda Cassazione, si pose come alternativa tra potere legislativo e potere giudiziario e, tanto per il timore di chiamare i componenti “giudici”, quanto per l’esigenza di limitare l’arbitrio dei giudici dell’epoca, si preferì inserirla nell’ambito del potere legislativo, affinchè “sorvegliasse” il potere giudiziario e non “giudicasse”.
    Infatti inizialmente fu posta sotto lo stretto controllo del Corpo legislativo, poiché i rivoluzionari temevano che un organo giurisdizionale indipendente avrebbe potuto interpretare un nuovo diritto, instaurato dalla Rivoluzione, secondo gli interessi delle vecchie classi dominanti. Per questo motivo, fu anche previsto che, ove l’interpretazione della norma fosse controversa, il Tribunal de Cassation avrebbe dovuto sottoporre la questione al Corpo legislativo…Ma questa procedura, nota come “référé législatif” si rivelò presto impraticabile e, quindi, abolita nel 1804, con il Code Napoléon.
    Questa concezione ebbe una ratio scritta nel decreto dell’Assemblea Nazionale Costituente del 1 Maggio 1790, ma originariamente era competente solo in materia civile; la funzione nomofilattica della Corte si tramanda, fino ai giorni nostri, tanto nei paesi di Civil Law, che di Common law.
    VALERIA CHIANELLO

    RispondiElimina
  3. La polemica riguardante l'interpretatio dei tribunali e dei doctores fu uno dei punti caratterizzanti le dottrine dell'illuminismo giuridico, come riportato dal Dott. Notari. Conferire il "primato" alla legge, sostituire alle fonti consuetudinarie, giudiziali e dottrinali del diritto la legislazione come unica fonte dello stesso, comporta anche privilegiare, rispetto all'interpretatio iudicis, l'interpretazione autentica, realizzata cioè dal medesimo organo che ha emanato l'atto normativo. Il che risulta logica conseguenza di un sistema che si fondava sulla rigida separazione dei poteri e chiedeva una sostanziale neutralità da parte della giurisdizione. Le teorie dell'interpretazione che vengono elaborate sotto l'influsso dei "Lumi della ragione", si legano a doppio filo dunque alla dottrina elaborata in modo compiuto da Montesquieu, che aveva sostanzialmente affermato l'autonomia della funzione di normazione, rispetto all'attività di giurisdizione, a fronte di una tradizione (quella del diritto comune) che aveva visto fondersi attività normativa e iurisdictio: basti pensare ai c.d. Arrets de reglement dei Parlamenti francesi, nel corso del XVIII secolo, che avevano il compito "de renouveler et d'animer la loi par un contact continuel avec le realites". Si trattava dunque di decisioni dal carattere interpretativo prese da tribunali superiori ed aventi portata generale, il cui rispetto veniva imposto a tutte le corti sottoposte.
    Gli illuministi sostenevano al contrario il riconoscimento al giudice della possibilità di applicare alla fattispecie concreta, sic et simpliciter, le norme create dal legislatore, rifuggendo qualsiasi velleità di carattere legislativo; l'interpretazione della legge doveva spettare unicamente a colui dalla quale volontà era pervenuta la norma da interpretare: di qui il divieto di interpretatio per l'organo giudicante e la necessità di riferirsi al legislatore stesso per ottenere un'interpretazione autentica. In merito può ricordarsi l'istituto del référé législative, risalente alla Francia Rivoluzionaria, che costituisce il punto d'arrivo della dottrina illuministica in esame (e che verrà abolito nel 1804 col Code Napoléon). Il référé imponeva il ricorso del giudice al Corpo Legislativo nel caso di dubbi di carattere interpretativo (casus dubius) o di lacuna legislativa (casus novus o caus omissus). Il référé era inoltre facoltativo, perché spettava al giudice valutare se il caso necessitasse del ricorso al Corps Legislatif (in seguito tuttavia verrà stabilito anche un référé obligatoire, nel particolare caso di impugnazione di un terzo giudizio del tribunale di rinvio conforme ai primi due).

    Alessia Guaitoli

    RispondiElimina
  4. Il Dott. Notari oggi sottolineava la grande diff. che c'è tra interpretazione e il significato che i giuristi di diritto comune assegnavano al termine latino interpretatio.Potrebbe essere interessante ricordare che il concetto odierno di interpretazione è legato alla nota distinzione tra disposizione e norma??- il testo del legislatore assume significato/i soltanto grazie all'opera interpretativa, da intendersi quest'ultima come attività intellettiva che consente di desumere la norma e non invece commento dottrinale e o atto di libertà dell'interprete che porta all'adattamento,ma anche,a volte,alla modificazione..-
    Scrive Tarello : "oggi nessun giurista sembra credere sia possibile...applicare una legge senza interpretarla,cioè senza averle attribuito un significato : se le due operazioni non sono separate,allora la interpretazione si ritiene sia implicita nella applicazione."
    Invece il mito illuministico era proprio quello di un "diritto senza interpetazione" e proponeva come "strumenti si statizzazione" il divieto di interpretazione e il riferimento al legislatore . Massimo ideale era la chiarezza.
    continua....

    RispondiElimina
  5. continua.....
    Con riferimento allo spirito del legislatore Montesquieu scrive:
    "Le formalità della giustizia sono indubbiamente necessaria per garantire la libertà.Esse per altro potrebbere divenire così complesse da impedire il conseguimento di quelle stesse finalità in base alle quali furono stabilite per legge....Chi possiede un genio così vasto da poter dettare leggi alla sua nazione o a un'altra ,dovrebbe ,nell'elaborarle,seguire determinate regole.Lo stile ha da essere conciso.Le leggi delle XII Tavole sono un modello di precisione:i bambini le imparavano a memoria.Le novelle di Giustiniano sono invece così prolisse,che è stato necessario riassumerle.Lo stile delle leggi ha da essere estremamente semplice;la espressione diretta è sempre meglio comprensibile che non quella riflessa.Non c'è alcuna maestà nelle leggi del basso impero:vi si fanno parlare i principi come dei retori.Quando lo stile delle leggi è gonfio ,non le si considera più che come opera di ostentazione....Le leggi non devono perdersi in sottigliezze;esse sono fatte per gente di mediocre intelligenza:non devono pertanto essere un trattato di logica,ma esprimere il semplice buon senso d'un padre di famiglia"

    RispondiElimina
  6. Leggendo "L'interpretazione autentica nel XVIII secolo.Divieto di interpretazione e riferimento al legislatore nell'illuminismo giuridico" di Paolo Alvazzi del Frate,come consigliato oggi da Alessia,mi sono soffermata sulla distinzione,richiamata dal Dott.Notari,tra L'INTERPRETAZIONE e L'ITERPRETATIO.
    Il vocabolo italiano "iterpretazione" ha un significato differente rispetto a quello che i giuristi del diritto comune assegnavano al termine latino "interpretatio".Mentre per "interpretazione" nella dottrina contemporanea si intende attribuzione di un significato a un testo legislativo,per "interpretatio" nel diritto comune si intendeva il commento dottrinale(opinio doctorum)e la giurisprudenza delle corti superiori di giustizia,tendenti ad adattare e a completare le fonti normative più disparate- diritto romano-canonico,diritto statutario,consuetudinario -in vista dell'applicazione alla fattispecie concreta.E ciò restringendo,estendendo,correggendo o itegrando la portata del testo legislativo.Insomma,il ruolo creativo,manipolativo e dunque normativo dell'interpretatio,rappresentava un elemento caratteristico della cultura del diritto comune,che si considerava indispensabile per l'evoluzione dell'ordinamento giuridico nel suo insieme.
    continua...

    RispondiElimina
  7. Come ha osservato il Tarello:gli scrittori di diritto comune chiamavano interpretatio il prodotto dell'attività di commento dei dottori e dell'attività di decisione dei tribunali,cui veniva riconosciuta autorità di diritto(oggettivo)in tutte le materie non direttamente disciplinate dalla lex,mentre per lex si intendeva il corpo del diritto romano- giustinianeo e la produzione statutaria dei sovrani edi altri organi delegati. Dopo la codificazione civile napoleonica e le altre codificazioni moderne,la interpretatio non ebbe più riconosciuto valore di fonte del diritto,ed "interpretazione"venne ad acquistare il senso,ora prevalente e quasi esclusivo,di attribuzione di significato ai documenti legislativi.

    GIORDANA DI GIOVANNI

    RispondiElimina
  8. Leggendo il saggio consigliato dal professore, ho pensato di andare a leggere il testo originale del Discours Préliminaire del Portalis, membro della commissione appositamente costituita con il fine di redigere il codice civile francese. Nel testo vengono evidenziati i motivi per cui, nel regime napoleonico, ci si allontana dai principi portanti dell'illuminismo a favore di una rivalutazione del ruolo interpretativo del giudice. Il Portalis si sofferma in primo luogo sui motivi che hanno portato
    alla diffusione cosi ampia di consuetudini e leggi differenziate sul territorio francese individuando la necessità di un codice capace di garantire chiarezza e certezza al diritto. Egli pure, come gli illuministi, è favorevole ad una semplificazione della materia ritenendo che "pochi articoli assai precisi su di ciascuna materia, possono essere sufficienti, e che la grande arte consiste in tutto semplificare". Vediamo subito, però, che il suo scopo non è quello di eliminare ogni possibile dubbio od ambiguità della legge, cosa che risulta alquanto impossibile, ma celebrare il ruolo fondamentale che viene a svolgere la giurisprudenza. Infatti è impossibile prevedere ogni possibile controversia che può presentarsi agli occhi del giudice, come risulta, altrettanto impossibile regolare una società con un diritto di un altra epoca come si era invece cercato di fare con il diritto romano. L'importanza dell'interpretazione e della giurisprudenza viene ad essere evidenziato proprio a causa del continuo mutamento della società umana, " come incatenare l'azione del tempo? come opporsi al corso degli avvenimenti, o all'insensibile pendio de' costumi?". All'indomani dell'era rivoluzionaria, si abbraccia la convinzione dell'insufficienza della legge e della necessità della giurisprudenza. Portalis viene proprio a sottolineare l'importanza dell'interpretazione dottrinale attuata dal giudice al fine di evitare un sovraccarico dei codici, inadatti a contenere le soluzione per ogni controversia ipotizzabile, e soprattutto a permettere al giudice di svolgere le sue funzioni al fine di ottemperare ai propri obblighi di ufficio, "la interpretazione dottrinale consiste nel cogliere il vero senso delle leggi, nell'applicare con discernimento, nel supplire ne' casi de esse non preveduti".

    Rebecca Lentini

    RispondiElimina
  9. A fine lezione mi ha molto incuriosita il parallelismo riportato dal professore tra la condizione dello stato nel medioevo e nella globalizzazione. Mi sono documentata su un saggio di Grossi dove afferma che il sistema feudale è venuto meno a causa dell'assolutismno politico: il rigido monismo della produzione della legge ha dileguato le fonti plurali (usi, opinioni di dottori...). La globalizzazione ha portato ad un declino del ruolo delle fonti statuali poichè queste sono state sostituite da un pluralismo giuridico. La legge, volontà del soggetto investito della sovranità, resta fonte del diritto ma soltanto una delle fonti e non la prevalente: si perde la mentalità autoritaria erede dell'illuminismo. La globalizzazione si incarna in principi inventati dalla prassi indisponibili a riconoscere argini nelle varie codificazioni.
    "Il diritto è cosa da giuristi, come lo era nel diritto comune della repubblica universale medievale, ed appartiene alla fisiologia della vita; nasce così dal basso; ed è insuscettibile di essere identificato dall'alto di un olimpo legislativo".
    "GLOBAL LAW WITHOUT A STATE".

    RispondiElimina
  10. Lucio Maria Lanzetti21 marzo 2011 alle ore 12:20

    Interpretazione e assolutismo

    vorrei riprendere qualcosa di quanto detto oggi a lezione, in particolare del rapporto tra l'interpretazione, l'assolutismo e l'illuminismo. credo che ciò che debba essere tenuto presente come elemento comune del tentativo, sia dei fautori dello stato di diritto sia dei monarchi assoluti (si è fatto l'esempio di Giustiniano e di Luigi XIV), di racchiudere in un cantuccio il potere interpretativo di dottrina e giurisprudenza, sia la situazione giuridica, il contesto giuridico in cui questi ultimi si trovano ad operare. mi pare che la situazione sia molto simile nel tardo Impero Romano, nel tempo del Re Sole e nel 1700: una babele giuridica, in cui la certezza del diritto è minima, quasi nulla, in cui i vari Tribunali, di ogni grado, applicano un diritto speciale rispetto agli altri, in cui i giuristi e i pratici sostituiscono alla lettera della norma, spesso assente, lacunosa, interpolata, frammentaria, un diritto desiderato, il frutto di una propria visione, della propria interpretazione, in cui spesso ci si "inventa" un diritto inesistente (Valentiniano III aveva introdotto la legge delle citazioni nel 426 d.C proprio per limitare questa inventiva). la risposta di Giustiniano, di Luigi XIV, degli Illuministi, è la reazione a questo caos giuridico, tentativi di riportare ordine e di garantire uno degli obiettivi fondamentali di qualsiasi ordinamento: la certezza del diritto. credo infine che questo sia un fenomeno quasi inevitabile di ogni ordinamento, un ciclo storico che si ripete dopo ogni periodo di espansione culturale e di conseguenza giuridica.

    RispondiElimina
  11. Riprendendo quello che abbiamo detto oggi a lezione sull’interpretazione e il suo rapporto con l’Illuminismo volevo scrivere un commento sull’istituto del “référé lègislatif”.
    L’Illuminismo aveva teorizzato l’applicazione delle norme senza interpretazione sulla base del pensiero di Montesquieu, che predicava la separazione dei tre poteri, legislativo, giudiziario ed esecutivo, e il primato della legge. Sulla base di questo pensiero il giudice doveva solo limitarsi ad essere “bouche de la loi”, ossia bocca della legge, applicare la legge senza darne alcuna interpretazione. L’unica interpretazione consentita era quella autentica perchè richiesta allo stesso legislatore. Da tutte queste premesse nasce l’istituto del “référé lègislatif”, che vietata al giudice (ancora una volta) di interpretare le leggi e nel caso di lacune o di oscurità nel testo della legge, di rivolgersi al legislatore per la soluzione di tali dubbi. Per quanto riguarda il termine “interpretazione” si dovrebbe far riferimento più che altro alla “interpretatio”, intesa come attività volta a creare nuove norme attraverso l’interpretazione.
    Il sistema prevedeva un “référé” facoltativo al legislatore, originato da un dubbio interpretativo sollevato dal giudice di merito, e un “référé” obbligatorio, richiesto, invece, da Tribunale di Cassazione nel caso di conflitto con il giudice di rinvio che non si era adeguato alla massima di giudizio espressa dalla stessa Cassazione. Tutto ciò dava luogo all’interruzione di giudizi pendenti, assegnando al legislatore una funzione prettamente giurisdizionale. Tale istituto venne poi abolito dal Codice napoleonico del 1804. Con questa abrogazione si affermò la situazione inversa, nel senso che si impose al giudice di giudicare comunque sulla causa, nonostante vi fossero lacune legislative.
    Rapportandoci ai nostri tempi, si può fare un riferimento alla Corte Costituzionale e alle sentenze interpretative, e soprattutto alle sentenze additive, dove si dichiara incostituzionale una norma nella parte in cui non prevede qualcosa. La Corte provvederà, quindi, ad aggiungere, “addizionare”, la norma non inserita dal legislatore. Si potrebbe, quindi, pensare che la Corte si sostituisce in questo modo al legislatore, violando la separazione tra i poteri. Tuttavia, in alcune occasioni (vedi mancata pronuncia di incostituzionalità nel caso dei procedimenti speciali del processo penale) la Corte ha dichiarato espressamente di non potersi pronunciare con sentenza additiva perché riteneva necessario un intervento del legislatore. Infatti, dice la Corte che la sentenza additiva è consentita “soltanto quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale ma consegua necessariamente al giudizio di legittimità, sì che la Corte in realtà proceda ad un’estensione logicamente necessitata…”.

    Claudia Zennaro

    RispondiElimina
  12. www.historia.unimi.it/../caffe.htm -
    A chi interessa questo link permette di poter leggere l'opera di Verri citata dal dottore Sandro Notari, Sull'interpretazione della legge che sappiamo porsi in questo fil rouge mirandoliano che attraversa il settecento.
    Aurora Filippi

    RispondiElimina
  13. Durante la lezione di oggi, che ho trovato particolarmente interessante e ricca di spunti di riflessione, il professore ha citato il libro di Umberto Eco, “Il cimitero di Praga”, uscito nelle librerie da poco meno di sei mesi.
    Come accennato a lezione, ho iniziato a leggerlo soltanto da qualche giorno ma ne sono rimasta fin da subito favorevolmente impressionata, principalmente per il fatto che benché si tratti di un romanzo, in cui trama e protagonista sono rappresentazione e frutto della fantasia dell’autore, in esso si descriva e si scatti un’istantanea precisa dell’Europa (la storia è ambientata principalmente fra Torino, Parigi e Palermo) del XIX secolo, dei moti rivoluzionari, dei mutamenti storici e politici, della letteratura e del gran diffondersi dei feuilletons; si può dire che esso rappresenti inoltre uno spaccato della società e degli uomini del tempo.
    Occorre sottolineare infatti che i personaggi in cui si imbatte e con cui si trova ad interagire il protagonista (unica figura mai esistita), Simone Simonini/Abate Dalla Piccola, sono tutti realmente esistiti ed hanno tutti, chi per un motivo chi per un altro, contribuito e partecipato attivamente al processo di evoluzione storica del tempo (esempio può esserne l’incontro che il protagonista fa con un giovanissimo e sconosciuto Sigmund Freud, al tempo assistente di Charcot in quel di Parigi).
    In alcuni passaggi del libro, che mi appresto ad allegare, mi sembra di cogliere qualcosa delle riflessioni sui delitti e sulle pene, sull’illuminismo giuridico, nonché sulla figura ed il ruolo dell’uomo di legge, affrontati nelle lezioni precedenti ed approfonditi anche in gran parte degli interventi dei partecipanti al blog:

    Sul mutato quadro politico, sugli effetti della rivoluzione e sul ruolo del sovrano:

    - “La rivoluzione, ragazzo mio, ci ha resi schiavi di uno stato ateo, più disuguali che prima e fratelli nemici, ciascuno Caino dell’altro.
    Non è bene essere troppo liberi, e non è neppure bene avere tutto il necessario. I nostri padri erano più poveri e più felici, perché rimanevano in contatto con la natura.
    Il mondo moderno ci ha dato il vapore, che ammorba le campagne, e i telai meccanici, che hanno tolto lavoro a tanti poveretti, e non producono più i tessuti di una volta.
    L’uomo, abbandonato a se stesso, è troppo cattivo per essere libero.
    Quel poco di libertà che gli serve deve esser garantita da un sovrano.”

    - “Dopo che la rivoluzione ha sconvolto tutte le nazioni d’Europa, si è fatta udire una voce che ha rivelato come la rivoluzione non fosse stata altro che l’ultimo o il più recente capitolo di una cospirazione universale condotta dai templari contro il trono e l’altare, ovvero contro i re ed in particolare i re di Francia e nostra santissima madre chiesa…”

    (continua)

    RispondiElimina
  14. -“Perché i muratori dovevano fare la rivoluzione?Barruel aveva capito che i templari delle origini e i liberi muratori erano stati conquistati e corrotti dagli Illuminati di Baviera!E questa era una setta terribile, il cui fine era non solo distruggere il trono e l’altare, ma anche creare una società senza leggi e senza morale. E legati al filo doppio con gli Illuminati di Baviera erano quei negatori di ogni fede che avevano dato vita all’infame Encyclopédie, dico Voltaire, e d’Alembert, e Diderot, e tutta quella genia che a imitazione degli Illuminati parlava in Francia di Secolo delle Luci e in Germania di Chiarificazione o Spiegazione, e che infine, riunendosi segretamente per tramare la caduta dei re, aveva dato vita al club detto dei Giacobini, dal nome di Giacomo de Molay.
    Ecco chi ha tramato per far scoppiare la rivoluzione in Francia!”

    Sulle modalità di svolgimento degli interrogatori, sulla tortura:

    - “Per farlo parlare gli avevano legato i polsi dietro la schiena, gli avevano aggiunto dei pesi ai piedi, e per una dozzina di volte lo avevano sollevato con una puleggia e quindi l’avevano lasciato precipitare al suolo.
    Poi gli avevano messo dello zolfo sotto il naso, e ancora lo avevano calato nell’acqua gelata e quando levava la testa lo spingevano giù, sino a che non aveva confessato.
    Ovvero, si diceva che per farla finita il miserabile avesse fatto i nomi di cinque suoi correligionari che non c’entravano per nulla e quelli erano stati condannati a morte mentre lui, con le membra slogate, era stato rimesso in libertà, ma ormai aveva perso la ragione…”

    Sull’uomo di legge:

    - “A mano a mano che guadagnava la cauta fiducia del padrone, si era accorto che la sua attività principale non consisteva tanto nel fare quel che di solito un notaio fa, come garantire di testamenti, donazioni, compravendite e altri contratti, quanto piuttosto nel testificare di donazioni, compravendite, testamenti e contratti che non avevano avuto mai luogo.
    In altre parole il notaio Rebaudengo, per somme ragionevoli, costruiva atti fasulli, imitando quando necessario la calligrafia altrui, e provvedendo i testimoni che arruolava nelle bettole circostanti.”

    - “Sia chiaro, caro Simone, gli spiegava, io non produco falsi, bensì nuove copie di un documento autentico che è andato perduto o che, per banale accidente, non è stato mai prodotto, ma che avrebbe potuto e dovuto esserlo…..
    Non oserei mai commettere un crimine del genere perché sono un uomo d’onore.”

    - “ - Io mi fido sempre dei miei clienti, perché servo solo persone d’onore. – Ma se per caso il cliente le ha mentito? – Allora è lui che ha fatto peccato, non io. Se mi metto anche a pensare che il cliente mi possa mentire allora non faccio più questo mestiere, che si regge sulla fiducia.”

    - “Simone non era rimasto del tutto convinto che quello di Rebaudengo fosse un mestiere che altri avrebbero definito onesto ma, da che era stato iniziato ai segreti dello studio, aveva partecipato alle falsificazioni, superando in breve il maestro.”

    A domani,

    Flavia Mancini

    RispondiElimina
  15. Rilevo con piacere che il tema di ieri, per quanto complesso, ha suscitato il vostro interesse.
    Chi avesse voglia di approfondire ulteriormente può leggere, oltre ai testi già indicati, la voce del prof. Caprioli "Interpretazione nel diritto medievale e moderno", in Digesto IV edizione, Torino 1993, pp. 13-25.

    RispondiElimina
  16. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  17. Riguardo al tema "assolutismo giuridico" affrontato dal prof. Conte a lezione, ho trovato, come promesso, due passi di Ugo Petronio (da confrontare con il saggio di Paolo Grossi segnalato).
    U. Petronio, La lotta per la codificazione, Torino 2002, pp. 49-54; ma anche 177-180, relativo all'interpretatio.
    Qualcuno potrebbe tentare di riassumere i diversi punti di vista, tenendo presente anche il saggio di Caprioli, reperibile sul web

    RispondiElimina
  18. Grossi fa sostanzialmente coincidere l’assolutismo giuridico con il monismo della fonte legge, realizzatosi quale conseguenza della rivoluzione illuminista e sostituitosi a quel pluralismo giuridico che aveva mantenuto la sua vitalità anche sotto sovrani assoluti, come Luigi XIV o Luigi XV.
    L’autore ritiene che l’età delle codificazioni, avviatasi e sviluppatasi in tutta Europa in via pressoché ininterrotta a partire dal 1804, abbia portato alla creazione di un monopolio legislativo da parte dello Stato, con riferimento alla sfera del diritto identificata con lo ius privatum. A partire dalla Rivoluzione Francese, si diffonde l’idea che solo la legge incarni il diritto, ed esaurisca il fenomeno giuridico; si presenta infatti quale atto volontaristico, un atto di volontà del legislatore, che esprime appunto una volontà generale ed incarna ciò che è meglio per la società nel suo complesso. Grossi, al contrario, ritiene che questo legame tra diritto e potere politico, tra diritto ed autorità, dal quale discende l’egemonia della fonte legge, debba venir meno a fronte della necessità di “guardare più alla società come è”: non è infatti possibile che la legge divenga unicamente voce dell’autorità, essa deve essere voce del sociale, perché il diritto è ordinamento del sociale. Arriva addirittura, nel saggio in esame, ad affermare l’esistenza di una coscienza “plagiata” (quale sarebbe quella dei giuristi contemporanei), e questo plagio “sottile”, iniziato con Beccaria e Muratori, dovrebbe ricondursi all’idea che lo Stato di diritto può coniugarsi solo al monopolio legislativo dell’autorità cui si riconduce il potere sovrano (di emanare leggi, in questo caso). Secondo Grossi, l’assolutismo giuridico è soltanto un “frutto storico, temporalmente e spazialmente limitato, ignoto al diritto dell’antico regime prima della chiusura della cerniera codificatoria”, un fenomeno che ha posto fine “all’ampio pluralismo giuridico preesistente la codificazione” e che ebbe la conseguenza di cambiare “il diritto privato da diritto dei privati (…) nel diritto pubblico avente ad oggetto i rapporti tra privati”.
    Che l’assolutismo giuridico non abbia più ragion d’essere, e che la funzione della normativa statale sia ormai in una fase di decadenza, è dimostrato attualmente dall’incertezza del rapporto tra normazione ed attività interpretativa, dal venir meno della centralità del codice (a fronte del proliferare di una serie di normative speciali che poco hanno a che vedere con la certezza che la fonte legge dovrebbe garantire), nonché dalla confusione che caratterizza momenti e ruoli della produzione normativa stessa. Questo perché il sistema della codificazione non è in grado di rispondere ad una “sostanza politico-sociale mutabilissima”, al contrario dell’ermeneutica giuridica, e dunque dell’interpretazione, che non può che porsi al di fuori dal piano normativo e che postula il superamento del positivismo legislativo. Deve dunque ricondursi nelle mani dei giuristi quella produzione giuridica che l’assolutismo giuridico ha reso monopolio del “principe-legislatore”, nonché insostituibile instrumentum regni, per far venir meno quel distacco fra regolatore e regola, da un lato, ed esperienza dall’altro. Un coinvolgimento che non può, ovviamente, limitarsi ad un contributo esegetico-filologico, ma che comporta un coinvolgimento dell’interprete “ad un livello costruttivo” rispetto al sistema delle fonti.

    RispondiElimina
  19. (continua)
    Petronio invece tende a precisare cosa debba intendersi per assolutismo, affermando che in generale, quando si parla di assolutismo lo si fa con valore di semplice scansione temporale oppure accanto ad altri sostantivi, che servono a dare un senso di diversità (es. assolutismo e stato di diritto), a scandire concetti diversi (dittatura, assolutismo, totalitarismo), a specificare o relativizzare il concetto, con una componente univoca in tutti questi casi: l’assunzione di una connotazione di carattere negativo; difatti Grossi connota in negativo una situazione di pan-legificazione.
    In realtà, pur ammettendo che un fenomeno di assolutismo giuridico sia esistito, Petronio ritiene che l’espressione abbia nel corso del tempo assunto valenze e significati diversi, e che sia necessario tener conto di quel processo di relativizzazione di parole, espressioni, concetti e modi di pensare che prende le mosse dall’umanesimo e che incarna, sostanzialmente, un senso di profonda crisi con il passato, che sfocia nella ricerca di certezze e di un “senso di ordine fondato”. Un’età del dubbio che “sposa la tesi della volontà della maggioranza come volontà di tutti, non perché afflitta da un morbo di pan-legificazione ma perché è pervasa anch’essa (…) da un bisogno di legalità”. In questo contesto il buon principe legislatore diventava il garante di regole fondamentali uguali per tutti, come in passato ne era stata garante la dottrina del principe cristiano.
    Secondo Petronio la prospettazione oggi del superamento della legge come fonte privilegiata del diritto, e di un ritorno ad un sistema “costituito da un diritto libero da ogni mediazione legislativa, nel quale i rapporti tra i soggetti siano stabiliti dal mercato e quindi dal contratto”, mostra diversi pericoli, tra cui la possibile egemonia di contraenti forti, nonché una sostanziale disuguaglianza giuridica, che farebbe scomparire i valori di solidarietà sociale che “hanno trovato la propria espressione feconda anche nel ruolo svolto dalla legge, di mediare e di ammortizzare i conflitti sociali”.

    Alessia Guaitoli

    RispondiElimina
  20. Qui di seguito riporto parole di Grossi contenute nel libretto “Mitologie giuridiche della modernità” che credo possano contribuire alla comprensione del pensiero dello storico .Denotano la formazione germanista dell’autore di cui oggi il prof ci ha parlato.
    La lettura deve aver convinto quasi tutti posto che nella prefazione Grossi definisce come “poche voci stonate quelle dei soliti pervicaci amanti dei luoghi comuni ,legati alla vecchia apologetica post-illuminista e saltellanti ancora il ballo Excelsior”!!!!
    “Il libretto è una riflessione più vigile e più pungente su un cumulo di nozioni e principi fondanti della civiltà giuridica moderna ritenuti patrimonio supremo e intangibile per l’oggi e per il domani … un tentativo di revisione critica di talune fondazioni della modernità giuridica accettate supinamente … dal giure consulto contemporaneo. “

    RispondiElimina
  21. ...continua
    “… si vuole offrire strumenti di demitizzazione culturale,mitizzazione quale processo di assolutizzazione di nozioni e principi relativi e discutibili,mitizzazione quale trapasso di un meccanismo di conoscenza in un meccanismo di credenza ….Lo sguardo dello storico deve essere liberato dall’occhiale vincolante che duecento anni di abilissima propaganda gli hanno posto davanti agli occhi … richiamato agli altissimi costi culturali del semplicismo di ieri e del suo – strettamente connesso – inconsapevole ottimismo. ..”
    “… un esempio:il diritto moderno è troppo còlto in vincolazione essenziale col potere politico quale comando di un superiore ad un inferiore - dall’alto verso il basso-, visione imperativistica che lo identifica in una norma,ossia in una regola autorevole ed autoritaria;questa visione,rinsaldata anche recentissimamente dall’imperversare della ventata Kelseniana,ha un costo che è altissimo ad avviso dell’autore del libretto:la perdita della dimensione sapienziale del diritto. Giacchè una tale visione non può che concretarsi in un sistema legislativo,con una sola fonte pienamente espressiva della giuridicità è cioè la legge. Una legge-quella dei moderni- concretantesi più in un atto di volontà che di conoscenza.Può anche essere redatta occasionalmente da sapienti ed avere un contenuto sapienziale altissimo,ma ricava la sua forza non da quel contenuto bensì dalla sua provenienza dal massimo organo di potere politico. Che,poi, artificiosamente si identifichi nell’assemblea legislativa il rappresentante unico della volontà popolare e nella legge l’espressione unica della volontà generale,si tratta soltanto di presunzioni assolute e di verità assiomatiche coniate da un abile strategia di politica del diritto.”

    RispondiElimina
  22. “Perdita della dimensione sapienziale non vuol dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti,i giuristi,siano essi maestri teorici o giudici applicatori,ma la perdita del suo carattere òntico (cioè scritto nella natura delle cose),del diritto come fisiologia della società,da scoprire e leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole.”
    “La lezione dello storico consiste nel richiamare l’attenzione dell’odierno giurista sulla intima sapienzialità del diritto in culture diverse da quella consolidatasi nel colmo dell’età moderna nell’Europa continentale,pienamente nel diritto comune medievale e post-medievale,in notevole misura nella civiltà del common law..”
    “E’ appagante ,da un punto di vista sostanzialmente giustiziale la garanzia offerta da legalità,certezza del diritto,divisione dei poteri? Ci si può contentare della legge come giustizia quando la legge è ridotta a comando autorevole ma passibile di ogni contenuto ,e pertanto vuoto?Non è forse giunto il momento di liberarsi del decrepito schema della gerarchia delle fonti oggi che l’assetto delle fonti smentisce,nel fervore dell’esperienza,quello schema e ne vive un atro?”

    RispondiElimina
  23. Ciò che lo stato moderno assicura ai cittadini è soltanto un complesso di garanzie formali:è legge unicamente l’atto che proviene da determinati organi e in base a un procedimento puntigliosamente precisato.Il problema dei suoi contenuti,cioè il problema della giustizia della legge ,della rispondenza a quanto la comune coscienza reputa giusto,è sostanzialmente estraneo a questa visione. La giustizia è un fine,ma esterno,dell’ordine giuridio.La visione storica può consolare l’uomo della strada perché toglie assolutezza alle certezze odierne,le relativizza … stimolando il cammino per la costruzione del futuro..
    E’ per questo che io mi porrò in un osservatorio comparativo,a cavalcioni fra civiltà giuridica medievale e civiltà giuridica moderna con l’obbiettivo di cogliere come il rapporto tra diritto-legge e giustizia sia vissuto in entrambe……di fronte alla formalistica soluzione moderna di una legge come giustizia prenderà consistenza la sostanzialistica soluzione medievale della giustizia come legge.

    RispondiElimina
  24. Prima c’era il diritto;il potere politico viene dopo. Intendendo con questa affermazione apparentemente sorprendente sottolineare che,nella civiltà medievale,il diritto riposa negli stati profondi e durevoli della società. Il sociale e il giuridico tendono a fondersi,ed è impensabile una dimensione giuridica come mondo di pure forme o di semplici comandi separati da una sostanza sociale. Intima sapienzialità del diritto:scritto nelle cose da suprema sapienza e la cui decifrazione e traduzione in regole non può che essere affidata a un ceto di sapienti , gli unici capaci di farlo con sprovvedutezza.
    Il diritto si è ormai contratto nella legge:un sistema di regole autoritarie, di comandi pensanti e voluti astratti e inelastici,insindacabili nel loro contenuto giacchè non da esse ,ma dalla qualità del soggetto legislatore traggono la loro autorità.
    -la figura del Principe ,che caratterizza la monarchia francese dal Duecento al Settecento,sostituisce al vecchio pluralismo un rigido monismo…
    -la distinzione tra lex dei medievale e loy ,legge in senso moderno,volizione autoritaria del detentore della nuova sovranità: quanto la prima contrassegnata da ben stabiliti contenuti e finalità quali la ragionevolezza e il bene comune ,tanto la seconda si propone come realtà che non trova in un contenuto o in uno scopo né il suo significato né la sua legittimazione…

    RispondiElimina
  25. Lo storico del diritto può contribuire ad una doverosa opera di revitalizzazione dello stesso,può così divenire garanzia per il futuro,può recuperare la giuridicità oltre lo Stato e oltre il potere...L’illuminismo politico giuridico ha bisogno del mito perché ha bisogno di un assoluto a cui aggrapparsi.”
    Grossi critica una visione potestativa del diritto che è conseguenza inevitabile del normativismo e guarda ad un recupero della complessità di un diritto concepito come ordinamento:”un diritto che fa i conti con la realtà sottostante al fine di mettere ordine,ne registra e ne rispetta tutta la complessità” .E per ciò che riguarda il ruolo dell’interpretazione,scrive,”l’unico strumento per togliere al diritto il tradizionale ripugnante smalto potestativo e autoritario era ed è di concepire la normazione come un procedimento che non si compie con la produzione ma che ha un momento susseguente,il momento interpretativo,come interno alla formazione della realtà complessa della norma…occorrono al giurista occhiali che non sminuiscano l’interpretazone ad una dimensione meramente conoscitiva..”

    RispondiElimina
  26. Sono miti duri a morire:
    -L’uguaglianza. Si deve operare una salubre de-mitizzazione:siamo senza dubbio di fronte a una conquista storica,ma conquista incompiuta. Occorre però che una insegna così astratta e così rigida sia integrata dalla considerazione delle situazioni diseguali di cui possono essere portatori i diversi cittadini;
    -La rappresentazione politica e lo svuotamento della sovranità popolare:la rappresentanza politica della modernità post-illuminista,se non ci si lascia abbagliare..,rivela il suo carattere di finzione,di supremo artificio al servizio di una strategia di controllo della società,oggetto di credenza…si delinea dura e cruda la strategia statalista di poggiare la costituzione in una struttura statuale;
    -La legalità:la legge è un vaso vuoto che il potere può riempire a suo piacimento,una verità indimostrata e indimostrabile,oggetto di credenza di cui c’era bisogno. Al progetto rivoluzionario è essenziale una ferrea corazza legislativa perché è questa che potrà garantire il futuro contro i molti nemici in agguato.E’ per questo che l’ottocento è il secolo delle codificazioni,perché il codice,questa nuova fonte figlia dell’illuminismo e della rivoluzione francese,è lo strumento con il quale si presume di regolare ogni problema,ogni caso della vita dei cittadini
    SCUSATE LA LUNGHEZZA!!!
    Monica De Angelis

    RispondiElimina
  27. Mi pare che il dibattito stia crescendo, come qualità naturalmente. Alessia ha immediatamente raccolto le sollecitazioni, mettendo a confronto le due posizioni di Grossi e Petronio. Monica de A. ha sottoposto alla nostra attenzione altri materiali, ineressanti pertinenti(che forse avrebbe potuto provare a sintetizzare, ma va apprezzato il suo lavoro ed altri suoi commenti precedenti).
    Non posso citarvi tutti, ma anche i primi commenti a caldo della lezione di lunedì avevano colto i punti salienti della lezione del professore.

    RispondiElimina