martedì 22 marzo 2011

Lo Stato, il diritto e l'assolutismo giuridico

Per dare ordine alla discussione, vi invito a proseguire il discorso iniziato intorno al post sull'interpretazione qui sotto. I brani riportati da Monica possono dare spunto per qualche altro intervento interessante, così come le indicazioni tratte dal libro di Petronio.

22 commenti:

  1. Il pensiero di Grossi e critica

    Leggendo "I quaderni fiorentini", emerge il pensiero di Grossi feroce oppositore di tutto il sistema dell' assolutismo giuridico, scaturente dall' illuminismo: Grossi esalta invece l' interpretazione come compito importantissimo del giurista (trattando brevemente anche dell' esegesi che considera importante, ma a differenza dell' Irti semplicemente un minus rispetto a compiti maggiori del giurista, specialmente quando interviene non su codici, ma sulle legislazioni speciali di settore che ormai al giorno d' oggi surclassano anche i codici stessi).
    Grossi si scaglia contro lo Stato, che si pone come intermediario tra società e diritto, per poi auspicare il ritorno a un sistema di tipo Medievale, ove la legge era qualcosa "che proveniva dal basso", dall' esperienza concreta, in particolare tramite la consuetudine e l' interpretazione, che l' illuminismo,con l' esigenza di certezza e con il primato della legge han provveduto a svalutare.
    Da tale lettura mi è sorta una curiosità: il pensiero di Grossi è lineare, ma criticabile, partendo ad esempio dalle premesse e dal substrato culturale del giurista stesso, che come diceva il Professore a lezione è legato ai Germanisti che esaltavano la consuetudine come espressione della società.
    Tuttavia, anche postulando come esatto il discorso di Grossi, per cui il diritto deve provenire dal substrato sociale e non dall’ alto, ovvero dallo Stato, il discorso non mi convince pienamente soprattutto per due profili: il primo è stato trattato a lezione, ovvero il fatto che se nessuno stabilisce delle regole, tutti possono barricarsi dietro il concetto di consuetudine, perché queste non sono conoscibili se non una volta scritte o una volta che si sia giudicato su un caso che le riguarda.
    Ma la domanda che mi è sorta, e che rappresenta il secondo profilo, è un’ altra: dando per presupposto il cuore del pensiero di Grossi , ovvero che il diritto deve provenire dalla società, dal basso, non capisco perché con evidenza afferma, a chiusura, l’ inutilità dello Stato come intermediario. Date le premesse, anche lo Stato potrebbe essere una struttura che promana dal “ basso”, dalla società come sua esigenza di certezza e ordine, al momento della sua “nascita”: non è un’ entità calata dall’ alto a dominare le masse, ma espressione di un bisogno di certezza che proprio quella società, che Grossi enfatizza come promotrice di legge, richiede. Questo è tanto vero che, nei casi in cui non vi è stato un’ adeguamento spontaneo alle richieste di razionalizzazione del diritto, vi son state rivoluzioni (come ad esempio in Francia con la rivoluzione contro l’ Ancien règime), per ottenere proprio questa certezza , che trova nei codici la sua massima espressione. Se si considera quindi anche lo Stato come, almeno inizialmente, una promanazione della società, allora cadrebbe la conclusione di Grossi per cui questo è un elemento che si frappone tra società e diritto, ma anzi diventerebbe proprio espressione massima del rapporto tra società e diritto.

    Premettendo che questa è una mia considerazione, voi che ne pensate?

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  2. Non conosco in modo sufficientemente approfondito il pensiero di Grossi, tanto da poterlo criticare o meno, ma se c'è una cosa che non stento a comprendere è il fascino che ha esercitato su di lui la germanistica; al di là della necessità di "razionalizzare", di "ordinare", tipica di ogni approccio sistemico, quell'approccio caratterizzante in genere una scienza, l'idea che ciascun "sapere" promani da uno stesso spirito, che è lo spirito del popolo, e che ogni conoscenza sia intimamente connessa a tutte le altre (tanto che, come affermava Jacob Grimm, uno dei primi germanisti appunto, nonché allievo di Savigny, "Tutte le scienze in fondo, sono una sola", diritto incluso), non può non suscitare interesse, tanto più oggi, che stanno conoscendo sempre maggiore diffusione studi di carattere interdisciplinare, anche nell'ambito del giuridico (basti pensare a nuovi movimenti, o settori di studio, come Diritto e Letteratura, Diritto ed Economia, Diritto e Scienze umane, Psicologia forense, solo per citarne alcuni, che si accompagnano ad aree più consolidate come quella della Storia del diritto o della Filosofia del diritto).
    Inoltre, almeno su un piano astratto, non può negarsi la preferibilità di una configurazione del diritto quale frutto di un processo di formazione spontanea, che promana da un quid commune al popolo, cui il diritto non viene imposto ma "disposto" in un certo senso, rispetto ad un diritto che deriva da atti di volontà più o meno arbitrari e comunque insufficienti a seguire quella che è l'intima vitalità del processo di evoluzione sociale, giustamente non riducibile nei limiti di un qualcosa codificato sic et simpliciter.
    Questo su un piano teorico. Perché poi è vero quello che dice Petronio, relativamente alla necessità di ottenere una soluzione razionale non perché imposta da un legislatore presupposto come detentore di una ragione assoluta, sì che "a Deo rex, a rege lex", ma perché espressione di una volontà generale, che se non incarna la volontà di tutti è comunque volontà della maggioranza, ed è frutto di un tentativo di mediare i conflitti e le diseguaglianze sociali. Forse la verità sta nel mezzo, non dovrebbe rinnegarsi la validità della fonte-legge quale strumento di regolamentazione dei rapporti sociali, ma nello stesso tempo, dovrebbe aprirsi la strada ad un dialogo più deciso rispetto alle problematiche che la mutevolezza dei rapporti sociali stessi arriva a creare, mutevolezza che sicuramente un sistema di rigida panlegificazione non riesce a ricomprendere e a gestire.
    Se Grossi sbaglia in qualcosa forse, è nel non contestualizzare quello che i germanisti hanno realizzato: intendo dire, se l'assolutismo giuridico è frutto della rivoluzione illuminista e nello stesso tempo deve considerarsi come una sorta di "epoca" ormai superata, perché non porsi con lo stesso atteggiamento rispetto ad una scuola di pensiero che molto deve alla necessità di costruire la "vera identità tedesca", ed un vero Diritto Tedesco, a fronte di un territorio frammentato che di unico, presentava solo l'elemento linguistico?

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  3. Dando uno sguardo all'opera di Franz Wieacker "Diritto privato e società industriale" citato oggi a lezione volevo sintetizzare due punti rilevanti: nella prima parte dove parla del modello dei codici civili classici e lo sviluppo dell'età moderna, l'autore, tende a sottolineare che il modello sociale delle codificazioni nell'europa occidentale si fonda sull'usurpazione di un unica classe della società denominata "borghesia possidente" ceto rappresentante degli ordinamenti giuridici nazionali. Nella seconda parte, Wieacker, spiega il rapporto con le fonti romane: la giurisprudenza tedesca si era sempre riservata di ricorrere ad un indagine storica, per accertare se un principio o istituto del Corpus iuris era stato realmente recepito. Con riferimenti alla Pandettistica pone poi diverse ipotesi ricollegandosi all'epoca della rivoluzione industriale: 1 le finti permettono senza artifici un’interpretazione che si adatta alle esigenze della moderna società dei traffici (un esempio è il contratto astratto di trasferimento). 2 Gli istituti di diritto romano scompaiono nella loro forma originaria e vengono usati per creare nuovi istituti corrispondenti ai bisogni moderni (Un esempio è l’interpretazione della stipulatio romana come autonoma promessa di pagamento, e il suo impiego per la costruzione dei titoli di credito). 3 Problemi assolutamente nuovi nascenti per la prima volta nella società moderna e non rintracciabili nelle fonti romane, in questo caso neanche i redattori del BGB riuscirono a risolvere questo possibile “futuro” problema ( si imposterà dogmaticamente solo in questo secolo). Tutto questo è solo un accenno all’idea dell’autore che cerca di discutere sulle esigenze dell’economia e sulla trasformazione dell’antico diritto romano nello sviluppo della modernità.
    Michele Gallante

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  4. Nella lezione di oggi si è avuto modo di approfondire la figura e la formazione di Paolo Grossi, fortemente influenzata e condizionata dagli studi germanistici, come sottolineato anche da Eleonora nel post precedente.
    Il professore ha chiarito dunque la concezione che il Grossi ha del Medioevo come epoca dell’effettività, permeata dal ruolo della consuetudine come produzione spontanea del diritto, come estrinsecazione della creatività del diritto dal basso.
    In tal senso mi preme riportare qualche passo, tratto dal libro “L’ordine giuridico medievale”, in cui si affronta proprio l’importanza ed il ruolo che la consuetudine assume e svolge nel Medioevo, credo possa esser utile a chiusura e consolidamento del tema trattato in queste due ultime lezioni.
    Il capitolo quarto si apre poi con un paragrafo dal titolo emblematico: “La consuetudine come costituzione”; di seguito alcuni passaggi significativi:
    “La società medievale ci si presenta come una realtà complessa, quasi stratificata: sulla scorza superficiale, il disordine degli accadimenti quotidiani; a un livello profondo, l’ordine, costituito per buona parte dal diritto.
    Il diritto si identifica con la realtà ordinante e fondante; come tale, come realtà non scalfita dal quotidiano, immune dal disordine caotico della vita d’ogni giorno, ha il ruolo di piattaforma stabile e stabilizzante, garanzia di continuità.
    Il suo livello non è la superficie battuta dalle intemperie politiche e sociali ma lo strato più fondo dove allignano i fatti normativi fondamentali; ed è ovvio che si annidi fra questi – e sia individuata soltanto al loro livello – la fonte produttrice e adeguatrice del diritto.
    E’ ovvio che la dimensione giuridica d’una siffatta società sia soprattutto consuetudinaria.

    Quel che a noi importa è l’aver colto nelle leges il cemento più rilevante della pax, dell’ordine sociale, l’aver posto in stretta connessione il cambiamento dei mores, dei costumi, con il cambiamento dell’ordo, cioè della struttura stabile della società.
    I mores, cioè il complesso consuetudinario ancora grezzo da cui si originano e prendono forma i fatti consuetudinari, appartengono all’ordo, sono situati al livello profondo dell’ordo, costituiscono l’ordo.
    E’ lì che deve essere individuata la fonte prima e prevalente del diritto.
    (continua)

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  5. La consuetudine non è un atto o un complesso di atti, ma è un fatto naturale che si svolge nel tempo.
    Essa non attiene al singolo, giacchè non è il singolo il soggetto della memoria e della durata ma la pluralità verticale e orizzontale, la stirpe e il gruppo; unicamente al loro interno il singolo è l’inconsapevole cellula della consolidazione dell’uso.
    Essa si origina dal basso e dal particolare: anche se può estendersi e generalizzarsi, nasce però sempre da una microcoagulazione collettiva e tende ad impregnare di sé le strutture; da voce di un gruppo, tende a vincolarsi alla cosa, a scriversi sulla cosa.
    Essa esprime, insomma, a livello giuridico i fatti fondamentali del sangue, della terra, del tempo.
    Il diritto è, all’origine, diritto di una stirpe, dove la consuetudine è la primitiva lex non scripta e dove le successive leges scriptae si pongo prevalentemente come individuazioni, certificazioni, sistemazioni di materiale consuetudinario da parte di un principe, che appare più nella veste di custos e lator legis che di produttore indipendente di diritto.
    ...
    L’immagine della lex come deposito di consuetudini appare chiarissima nel prologo della Lex Baiwariorum: .

    Tra lex e consuetudo non v’è quell’abisso concettuale e formale che il volontarismo moderno vi ha sopra costruito; la consuetudo è una lex in potenza, e la lex è una consuetudine certificata e sistemata; l’una e l’altra in continua osmosi.

    Il carattere già normativo del fatto consuetudinario e la sua connaturale disponibilità a trasformarsi in lex è segnato limpidamente nella coscienza popolare ed è accolto senza batter ciglio in atteggiamenti ufficiali.

    Non è arrischiato affermare che la consuetudine appartiene allo strato più profondo, più ‘radicale’ del diritto, inerisce alle strutture più intime dell’assetto socio-politico assicurando una fondazione salda e stabile alle fragilità e incertezze di un quotidiano straordinariamente turbolento; non è arrischiato cogliere in essa la costituzione dell’ordine stesso, dove costituzione ha il significato culturale e tecnico che una storiografia germanica più o meno recente ha annesso alla parola e nozione di Verfassung.
    Ce ne accorgiamo quando vediamo il monarca accondiscendere al fenomeno consuetudinario e accoglierlo nel testo ‘legislativo’ senza alcuna pretesa di vaglio da parte sua, o – peggio ancora – quando vediamo il monarca confessare la propria impotenza a incidere su consuetudini il cui contenuto egli non condivide; quando vediamo il giureconsulto ammettere senza difficoltà la desuetudine della norma regia.
    E v’è una convinzione diffusa della natura essenzialmente diversa tra la norma autoritaria posta in essere dal principe nell’esercizio solitario dei propri poteri di governo e la lex che è invece riconducibile a principe e comunità, immagine della vicenda etnica e storica di una intera natio.

    Sia che si tratti di verbalizzazioni d’un fatto avvenuto o di una semplice copertura formale, nell’un caso e nell’altro, emerge la convinzione che fissare il diritto – almeno quello legato intimamente all’ethnos – non è affare del solo principe.

    (continua)

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  6. Il principe appare come colui che non crea il diritto, ma lo dice:ius dicit; e affiora quella nozione basilare di iurisdictio, che coglie il principe quale interprete di una dimensione preesistente e sovraordinata e che individua come prevalentemente interpretativa la sua potestà sul piano giuridico.
    Al di sotto del mare perennemente agitato degli avvenimenti quotidiani, stanno le acque profonde ma calme, calme perché profonde, della tranquillità giuridica.
    E’ la piattaforma costituzionale della consuetudine, fatto primordiale, seconda natura, talora redatta per iscritto e divenuta lex ad opera di un principe zelante, più spesso rimasta allo stato originario di trama invisibile ma onnipresente e imperiosa nella quale sono immersi uomini e cose.
    Questo patrimonio giuridico di indole così squisitamente consuetudinaria ha l’obiettivo privilegio di nascere dal basso, d’essere voce intatta del reale, conseguendo così, e serbando, una qualità autenticamente ordinativa.”

    Quel che emerge da questo capitolo, da cui ho tentato di estrapolare i passaggi più significativi, emerge non soltanto la centralità della consuetudine come fonte creatrice del diritto, ma anche una certa indifferenza ed autonomia della politica, più precisamente del potere politico, dal diritto.
    Grossi sottolinea più volte che al processo formativo e di creazione del diritto il principe non prende affatto parte, ne rimane piuttosto un mero spettatore, e se viene appellato come princeps-iudex è proprio perché la iurisdictio rappresenta una categoria concettuale del tutto avulsa da quella della creazione del diritto: come egli stesso afferma “ ‘dire’ il diritto significa presupporlo già creato e formato, significa esplicitarlo, renderlo manifesto, applicarlo, non crearlo”.
    Il principe dunque non costituisce, se non in maniera minore e del tutto marginale, parte attiva alla produzione e creazione del diritto; esso promana dal basso, nasce dai fatti e su di essi si costruisce.
    Sostiene il Grossi: “in un mondo dove il potere politico sembra rinunciare al proprio compito ordinativo sul piano giuridico e dove si sono rarefatti i modelli da osservare, la sfera del giuridico e quella del fattuale tendono a fondersi, la dimensione della ‘validità’ cede a quella della ‘effettività’.
    Se validità significa rispondenza a certi archetipi, se gli archetipi si sono dissolti col dissolversi dello Stato e della cultura precedenti, l’organizzazione giuridica dovrà riposare su altre fondazioni.
    Il fatto non diventerà diritto perché una volontà politica se ne appropria dopo aver constatato la sua coerenza a determinati valori per essa rilevanti, ossia dopo un vaglio filtrante totalmente affidato a quella volontà.
    Il fatto qui è già diritto per una sua intrinseca forza, nel momento in cui ha dimostrato la propria effettività, ossia la capacità trovata dentro di sé di incidere durevolmente sull’esperienza.”
    (continua)

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  7. Ed è qui che si chiude il cerchio secondo Grossi, il quale riconosce essere in atto nel Medioevo un processo non solo di effettività, come chiaramente esposto dal professore stamani, ma anche di “fattualità” del diritto: il fatto (e per Grossi con fatto si intende non il fatto che è già giuridico per i teorici moderni del diritto, bensì “una entità della natura fisica e sociale, che, senza lasciare la propria qualità di fenomeno grezzo e primordiale, è tuttavia già intrinsecamente diritto, ha in sé una potenzialità giuridica destinata a manifestarsi e ad incidere sull’esperienza storica”) ha forza e capacità di imporsi tale da, allorché dotato di effettività, essere considerato e valutato quale fatto autenticamente normativo; esso diviene “protagonista” dei vari ordinamenti, all’interno dei quali diviene fonte in senso formale.
    Da ultimo, abbiamo riscontrato che il Grossi non è l’unico a sostenere tali teorie sull’importanza e sul ruolo della consuetudine nel Medioevo.
    Ho scovato una considerazione che della rilevanza della consuetudine fa Manlio Bellomo, nel libro “L'Europa del diritto comune”, laddove afferma: “Esistono nelle città e nelle campagne consuetudini consolidate, che riguardano rari contratti obbligatori o ad effetto reale, o sono connesse ai quotidiani problemi del vicinato, per la regolamentazione dei confini, servitù di passaggio, etc…In breve, si tengono comportamenti o si subiscono condizionamenti che rispondono a linee normative fluide, differenti da luogo a luogo per dettagli e varianti, sufficientemente omogenee nella sostanza e certo di lunga durata.
    Si tratta di consuetudini che i residentes conoscono, o dovrebbero conoscere, ma nessuno le ha messe per iscritto. Vi è come una fascia grigia, sul margine, che le rende elastiche, sicchè atti individuali possono non rispondere esattamente ai precetti normativi consuetudinari e non costituirne tuttavia una violazione.
    Ma vi è un nucleo centrale, chiaro e inderogabile: chiunque si pone contro le norme che ne fanno parte viola le regole della comunità.
    In tali casi occorre procedere a un duplice accertamento: sull’atto compiuto, per ricostruirne le modalità; sulla consuetudine relativa, per definirne i contenuti.

    La comunità si riconosce nelle sue consuetudini, la legge resta un dato lontano, sentito come estraneo, per larghe parti assolutamente inutile. Se vale è perché viene assorbita e solo in quanto viene assorbita dalle consuetudini”.

    A domani,


    Flavia Mancini

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  8. Un territorio che non conosce unità è costretto,credo,a trovare in altri ambiti la sua ragion d’essere, e dunque una cultura di radici nazionaliste non può accettare lo STATO e il CODICE poiché visti come entità universali, indifferenti a qualsiasi particolarità culturale o nazionale.
    Così il programma della Scuola Storica diviene quello di cercare le fonti non legislative del diritto: la società è concepita come un tutto organico dove il presente è ancorato al passato. Dunque non un’epurazione dal vecchio ma una rivalutazione dello stesso sistematizzata con le consuetudini presenti.
    In base a ciò mi viene da pensare che l’espressione dell’identità storica-giuridica-culturale di un popolo non necessariamente deve negare la creazione di un sistema codificato, ma anzi il codice stesso può essere visto come la forma di identità di un popolo.
    lo Stato era considerato dai germanisti come un elemento di disturbo nella gestione della vita giuridica del popolo perché accentratore di istanze che solo i diretti interessati ( i consociati) avrebbero dovuto gestire per il loro bene, ma Savigny riconosce in ogni caso la funzione rivestita dal corpo dei giuristi e dei magistrati colti nell’individuazione, nel perfezionamento e nel trattamento sistematico del diritto. Non è forse questo ( a mio personalissimo avviso) un modo per cominciare a sottrarre al popolo la funzione creatrice del diritto? Siamo certo ben lontani dal parlare dell’esigenza di una identità statale ma è come voler affermare, seppur sotto una diversa luce, la necessità di una classe di specialisti al quale demandare il compito di sistematizzare. E non è forse il codice un tentativo di sistematizzazione del diritto? I due tentativi (SISTEMATIZZARE mediante la giurisprudenza dei concetti – CODIFICARE) mi sembra pervengano allo stesso risultato :semplificare e rendere il più possibile noto a tutti quali siano le regole alle quali attenersi.

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  9. Uno Stato democratico non è forse esso stesso espressione di un popolo? e dunque quand’è che può negarsi la necessità di uno Stato?..quando esso assuma la forma del dispotismo: il desposta promana le sue regole e non accoglie le istanze del popolo. Ci troviamo però qui nell’Ottocento secolo frutto di stagioni rivoluzionarie portatrici di istanze democratiche.
    Ultima e non irrilevante annotazione è quella che già si è precisata a lezione: affermare l’inutilità dello stato e di una codificazione è pensiero alquanto estremo non che utopistico poiché applicabile alla sola branca del diritto privato, di tutte quelle regole cioè che guidano l’autonomia dei consociati, ma sappiamo

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  10. bene che non potrà mai esistere una società che si autoregoli anche in ambito penale ed proprio qui che l’ente Stato si rivela fondamentale ed indispensabile!
    Spero di non aver banalizzato con le mie riflessioni l’argomento e di essere stata sufficientemente chiara in quel che volevo esprimere!
    Daniela Colozzi

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  11. Partendo dalla lezione di ieri mi sono soffermata sull'atteggiamento del Savigny verso una codificazione vera e propria: egli esprime un rifiuto assoluto e totale verso di essa in quanto ritenuta un processo che blocca l'evolversi della società nonchè causa di cristallizzazione del diritto. E allora perchè non chiedersi cosa si debba intendere esattamente per CODIFICAZIONE? E come è nata l'idea di CODICE?

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  12. ...(continua)Al riguardo ho trovato interessante una riflessione di N. Irti in cui si esamina il processo storico,ideologico,sociale ed infine economico che ha portato alla nascita dell'idea di "codice". Tra la fine del 1700 e gli inizi del secolo successivo a seguito del moltiplicarsi di ideologie ed interessi economici si sentì l'esigenza di ricorrere ad un'opera unificante capace di affermare il primato della legge tra le fonti del diritto e di raccogliere in sistema la disciplina di un settore di vita. Il codice quindi venne ad assumere l'importanza di un libro patriottico, con cui venne celebrata l'identità culturale del paese,l'uguaglianza dei cittadini,la continuità della tradizione e l'audacia della modernità. Il codice manifesta l'orgoglio e la potenza del potere legislativo, si arriva perciò ad una equazione tra diritto e codice che è promossa dal monopolio legislativo dello stato. Non si tratta di raccogliere vecchie norme o consuetudini, di consolidare il passato ma di porre il diritto nella forma del codice. CODIFICARE NON è un semplice METTERE INSIEME,gettare un vincolo estrinseco tra norme diverse quanto piuttosto stabilire il diritto secondo una tavola di principi.
    Su questo tema è celebre la polemica tra Thibaut e Savigny, che fu una nobile e colta disputa sull'unità del diritto:la quale pareva al primo garantita dal codice, come simbolo dell'identità tedesca e del patriottismo delle guerre antinapoleoniche; invece a Savigny messa in atto e rinnovata dalla scienza giuridica. Si scorgeva già l'antitesi tra sistema interno,scelto dal legislatore e applicato nella struttura dei codici, e sistema esterno ,con cui il ceto dei giuristi è in grado di sorvegliare la genesi storica del diritto.
    Thibaut sosteneva l'esigenza di emanare un codice unitario per tutta la Germania, sottratto all'arbitrio dei singoli governi e indispensabile ai paesi tedeschi per intrattenere vivaci e intime relazioni reciproche. Il codice civile doveva essere pertanto una grande opera nazionale, elaborata nello spirito tedesco e capace di conferire stabilità e certezza ai rapporti interni. Lo stesso bisogno di stabilità e certezza è pure avvertito da Savigny il quale tuttavia indica "il mezzo giusto in una scienza giuridica in processo organico che possa essere comune a tutta la nazione". All'autorità del legislatore Savigny oppone l'energia del popolo, sistemata e interpretata dai giuristi. La disputa tra i due, che appariva storicamente superata nell'espandersi universale dei codici,riprende forza nell'età della decodificazione, quando sui giuristi torna l'ufficio di ristabilire l'unità infranta dalle leggi speciali e di conciliare i principi del codice con i principi delle discipline di settore.

    VALENTINA TONNICCHI

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  13. Riporto qui di seguito alcuni stralci che richiamano ciò di cui si è parlato a lezione.
    Da “dialogos” di Cioffi Luppi Vigorelli Zanette:

    “Se Montesquieu fissò,con la sua opera,alcuni principi metodologici delle scienze sociali,spetta ai fisiocrati l’elaborazione di innovativi punti di vista nel campo dell’economia politica,che proprio nel Settecento si venne costituendo come disciplina scientifica. La fondamentale innovazione teorica della fisiocrazia consiste nell’individuare la fonte della ricchezza nel momento della produzione di beni e non ,come il mercantilismo,nella circolazione delle merci,cioè nel momento dello scambio.Unica fonte di ricchezza è l’agricoltura,il settore primario,la sola che,generando beni fisici,dà un prodotto netto;ogni altro settore,industria compresa,è sterile ed è tributario dell’agricoltura.Anche la definizione delle classi sociali è vista nel loro rapporto con i beni:classe proprietaria,classe produttiva e classe sterile..
    L’appello alla natura legislatrice,modello ideale opposto all’artificio umano(physis=natura kratos=forza) giustifica il liberismo dei fisiocrati sintetizzato dal celebre motto”lasciate fare,lasciate passare le merci”……..”le leggi generali dell’ordine naturale costituiscono il governo più perfetto:la natura detta il diritto!Il credo politico della fisiocrazia è il dispotismo legale,un’assolutismo che si muove secondo leggi dettate dall’ordine naturale.Il potere politico spetta ad un'unica autorità illuminata,superiore a tutti gli interessi particolari,che si limita ad assecondare rispettare e far rispettare le leggi naturali dell’ordine economico e sociale.Ne derivano chiari precetti di politica economica:introduzione del libero scambio;soppressione dei residui feudali;sostegno alla formazione di grandi aziende;istituzione di un’unica tassa sulla rendita fondiaria abolizione di ogni altro gravame sugli agricoltori;facilitazione degli investimenti e dei costumi a scapito del risparmio”.

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  14. Da “ Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia” paragrafo 5 cap VI
    “La tesi di una presunte derivazione fisiocratica di molte soluzioni normative del Code Civil o addirittura di una diretta ispirazione dei legislatori napoleonici ai postulati della fisiocrazia deve essere ridimensionata…Non si vuole negare che il moderno liberalismo costituzionale della borghesia francese della fine dell’antico regime fosse anche permeato di aperture liberiste sul piano economico ,solo sottolineare che queste non possono essere ritenute tot.caratterizzanti le aspirazioni del terzo stato al quale interessava la libertà politica e civile in misura ben più precisa e puntuale di quella economica…
    ….i principi liberali delle norme del code civil relative alla proprietà ed ai diritti reali,all’autonomia negoziale,ai traffici ed ai commerci ..mostravano trionfante quell’individualismo liberale alle cui origini poteva aver contribuito,sul piano delle dottrine economiche,anche la scuola fisiocratica.Vero è però che tale scuola faceva della terra e quindi della proprietà fondiaria l’essenza del suo interesse scientifico e politico e che, pertanto ,il suo obiettivo era stato per molti decenni quello dell’affrancamento della proprietà agraria da ogni vincolo ed onere e della conseguente liberalizzazione del commercio…
    In una società caratterizzata da una appena incipiente industrializzazione,la proprietà della terra rappresentava senza dubbio la maggiore anche se non esclusiva ricchezza …il Code Napoleon riconosceva definitivamente con la preminente importanza del valore economico della terra ,il ruolo essenziale della proprietà immobiliare … però nel Code Civil ,troppo spesso accusato di aver trascurato la disciplina dei settori commerciale ed industriale per la pretesa derivazione fisiocratica della sua ispirazione,erano implicitamente contenuti i principi fondamentali di ogni attività economica ,comprese quelle legate allo scambio dei prodotti ed allo sviluppo manifatturiero in piena coerenza con la tradizione romanistica dominante il diritto privato"

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  15. A seguito della rivoluzione francese e il recepimento del code Napoleon in quasi tutta europa,si pose in Germania il problema se recepire o meno il code Napoleon.
    Ci furono 2 tipi di risposta:
    1) Recezione: ad essere accolta non era l'idea di adottare il codice francese ma quella di elaborare un codice tedesco prendendo spunto da 3 codificazioni: francese, prussiana,
    austriaca. A proprorre questa teoria furono gli esponenti della Scuola Filosofica. Tra i maggiori esponenti vi era F.J. Thibaut. In un suo scritto intitolato "La necessità di
    un diritto civile generale per la Germania", propose la redazione di un codice civile, comune a tutta la Germania che avrebbe anche riunificato la nazione.
    In questa sua opera si lamenta della situazione in cui versa il diritto civile in Germania, che in realtà era il diritto romano, vigente nei diversi stati tedeschi a titolo di diritto comune.
    Insisteva sul fatto che si trattava di un diritto recepito, straniero. In oltre essendo il frutto di esperienze giuridiche lontane era divenuto difficile trarne soluzioni giuridiche attuali.
    La soluzione era un codice nazionale. Ma le sue idee non trovarono ascolto.

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  16. Stavo leggendo il cap.VII del libro di Italo Birocchi consigliato dal professore e ho trovato un accenno alla fisiocrazia. Oltre a quello già scritto da Monica, mi ha molto colpito la frase, trovata nel libro, per cui “la proprietà è intesa come prodotto delle fatiche dell’uomo, legata ai suoi bisogni e progetti”. Motto dei fisiocrati era “laissez faire, laissez passer”, ragione per la quale questi filosofi insistettero molto sulla necessità di lasciare ai privati la piena libertà per quel che concerne la proprietà, il lavoro e il commercio. L’individuo doveva essere lasciato libero di perseguire, cioè, i suoi interessi, rispettando, però, sempre anche gli interessi altrui: solo così si sarebbe potuto conseguire l’interesse dell’intera collettività. Molto spesso si optò per il non-intervento, in quanto si riteneva che era la natura stessa a provvedere a tutto.
    Essendo il loro pensiero basato sull’agricoltura (che si pone come base per tutte le altre attività), è ovvio che anche la proprietà si inserisce in questo rapporto. La proprietà mobiliare e fondiaria, anzi, costituisce il presupposto di ogni attività agricola, essendo la società divisa in tre classi (proprietari terrieri, lavoratori sterili e lavoratori produttivi) ed essendo i proprietari alla base del ciclo produttivo, in quanto questi affittavano la terra agli agricoltori, dando così inizio al tutto. La realizzazione dell’ordine naturale implicava necessariamente la proprietà privata e la libertà, si risolveva “nel diritto di possesso assicurato e garantito agli uomini riuniti in società dalla forza di un’autorità tutelare sovrana” (Dupont). Il nuovo ordine veniva stabilito attorno al cittadino proprietario e traeva il carattere di stabilità dai valori politici che univano gli interessi del titolare della proprietà al territorio e alla municipalità. Si richiedeva una riforma che avrebbe dovuto basarsi sulla “primazia accordata alla terra”e sulla posizione particolare riconosciuta alla “cittadinanza attiva”, intesa come capacità di amministrazione di cui avrebbero dovuto godere i proprietari in quanto titolari di una quota di terreno.

    Claudia Zennaro

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  17. a lezione abbiamo parlato di "laicizzazione del diritto" e mi ha particolarmente interessato l'evoluzione dell'istituto del matrimonio così ho cercato notizie in più.
    Nella nostra tradizione culturale, e nella stessa definizione costituzionale il matrimonio viene considerato come "fondamento della famiglia" (art. 29 cost. , art. 12 conv. europea deritto dell'uomo), atto con il quale viene istituita una comunità fondata su vincoli di affetto e solidarietà che costituisce un'articolazione fondamentale della società. Il matrimonio civile si forma nel solco del diritto romano e del diritto canonico ed a quelle tradizioni si riallaccia. In diritto romano il matrimonio costituisce un'unione fondata esclusivamente sulla libera volontà degli sposi: consensus facit nuptias è la formula che riassume in sé la struttura del matrimonio romano. Per i giuristi romani classici il consenso è inteso come volontà effettiva e continua di essere marito e moglie: dalla sua manifestazione iniziale e dal suo perdurare dipende l'esistenza stessa del matrimonio, di modo che il divorzio si verifica quando il consenso viene meno. Il matrimonio non richiede giuridicamente alcuna forma particolare, anche se a Roma,come ovunque, esso è generalmente accompagnato da cerimonie destinate ad imprimergli solennità. Neppure il divorzio richiede forme particolari, e non determina conseguenza di tipo patrimoniale.
    La chiesa mutua dal diritto romano il carattere consensuale del matrimonio sul quale innesta il sacramento di cui l'indissolubilità costituisce tratto distintivo. E' il consenso iniziale che crea il vincolo, vincolo che perdura nonostante quel consenso in seguito possa venir meno.
    In questo la concezione moderna del matrimonio è tributaria al diritto canonico. Per il diritto della chiesa il matrimonio è un atto preminentemente consensuale, che non richiede forme solenni: sono gli sposi i ministri del sacramento. Nel trascorrere del tempo, tuttavia, l'esigenza di reprimere i matrimoni clandestini, fonte di disordine sociale, e di mantenere salda la giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio indussero ad un maggior rigore nei requisiti di forma della celebrazione.
    Il concilio di Trento (1563) costituisce il momento culminante di questo processo, in quanto è in quella sede che vengono stabilite le forme legali necessarie per la celebrazione di un matrimonio valido.
    Con la riforma protestante inizia il processo di secolarizzazione del matrimonio. Negli stati protestanti, per prima l'Olanda nel 1580, il matrimonio civile fu istituito come mezzo per tutelare le minoranze religiose, anche quella cattolica, le quali, non avendo un'organizzazione riconosciuta dallo Stato, non avevano la facoltà di celebrare unioni legalmente riconosciute, e costituì espressione di tolleranza religiosa nei confronti di confessioni la cui condizione era inferiore.
    Negli stati cattolici il processo di laicizzazione del matrimonio si afferma sulla base della distinzione tra "sacramento", sul quale sussiste la giurisdizione della Chiesa,e "contratto" sul quale ha competenza il potere civile. Il punto di arrivo di questa riflessione dottrinale si ritrova in Pothier che, nel suo Traitè du contrat de mariage (1771), disegna il quadro del diritto matrimoniale alla fine dell' Ancient Regime. A sua volta Voltaire definisce il matrimonio come un "contratto del diritto delle genti, di cui i cattolici hanno fatto un sacramento". Sacramento e contratto sono tuttavia due cose ben diverse: "al primo afferiscono gli effetti civili; al secondo le grazie della chiesa". Di lì a poco la Costituzione del 3-14 settembre 1791 proclamerà che "la legge considera il matrimonio solo come contratto civile" (art. 7).

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  18. ..La rivoluzione francese costituisce, dunque, il momento conclusivo di un vasto processo di secolarizzazione del matrimonio, con la rivoluzione francese il matrimonio viene definitivamente sottratto nell'ambito del diritto civile, per ricevere compiuta disciplina dal Code Civil francese del 1804. In Italia questo processo di laicizzazione del matrimonio si è compiuto con la codificazione del 1865 con la previsione del matrimonio civile come unica forma di matrimonio valido per tutti i cittadini. In tal modo si intendeva garantire a tutti, indipendentemente dal credo religioso, una pari via di accesso allo status coniugale.
    Il matrimonio civile veniva riconosciuto anche dalle altre legislazioni europee, a partire dal BGB tedesco (§1318), dal codice civile svizzero del 1907 (art. 117), dai codici austriaco, belga, spagnolo. Mentre l'Inghilterra lasciava aperta la scelta tra matrimonio civile e religioso, entrambi con efficacia civile.
    In Italia la grande svolta del diritto matrimoniale è segnata dal concordato lateranense del 1929 con il quale il sistema diventa a competenza mista, in parte civile e in parte ecclesiale, sia con riguardo alla formazione del matrimonio, sia con riguardo alla giurisdizione sulle cause matrimoniali. Il codice civile del 1942 che, sia pur cautamente, modifica la disciplina dei rapporti familiari, specie con riguardo alla tutela dei figli naturali, non apporta sostanziali modifiche alla disciplina dell'atto di matrimonio ed al sistema matrimoniale concordatario.
    La contrastata introduzione del divorzio nel 1970, confermata dal referendum popolare del 1974, sarà la prima grande riforma in questo campo. La possibilità di sciogliersi da un vincolo ormai non più alimentato dalla comunione di vita costituisce, infatti, segno di privatizzazione del matrimonio, in quanto esprime il riconoscimento di più ampi spazi di autonomia dei coniugi. Per quanto attiene al sistema matrimoniale, la previsione della cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico, oltre che dello scioglimento del vincolo civile, ripropone, in termini nuovi, la distinzione tra "sacramento" e "contratto". Essa muove nel presupposto che la celebrazione religiosa sia fonte di effetti distinti e paralleli nell'ordinamento della chiesa e dello stato.
    L'evoluzione normativa attenua, ma non elimina, le differenze di regime giuridico tra matrimonio civile e concordatario. Nella disciplina attuale il matrimonio è un atto consensuale, espressione della volontà degli sposi, manifestata nelle forme solenni della celebrazione, sul quale l'ordinamento dello stato ha competenza e giurisdizione proprie, sia pur concorrenti con quella della chiesa.
    Il matrimonio civile resta tuttora il cardine del nostro sistema, pur nell'evoluzione che lo ha segnato in seguito al concordato con la santa sede e alle intese con le altre confessioni religiose.
    Scusate ho scritto molto, ma spero che sia stato utile.
    Cristina Di Florio

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  19. Leggendo Assolutimo giuridico e diritto privato di Grossi mi sembra giusto mettere il luce anche la figura di Vassalli, uno degli autori più rilevanti del nostro attuale Codice Civile. Grossi lo cita ricordandolo come un giurista che non ha mai rinnegato la propria formazione di storico del diritto, anche se ha dovuto racchiudere la legge in un Codice. Da qui la nascita di quel sentimento di disagio che lo renderà insoddisfatto del suo stesso lavoro: Chi vi parla non è entusiasta. Rende omaggio alle esigenze pratiche a cui il codice corrisponde, ma avverte il disagio della costrizione della legge civile in un codice. Vassalli infatti aveva imparato proprio dalla storia quanto potessero risultare inadeguate le costruzioni geometriche per ordinare la complessità e la mobilità della vita giuridca. L'antitesi che se ne ricava a volte appare puramente riduttiva, ma già l'espressione "ordinare la mobilità" risulta un ossimoro non facilmente sormontabile. Tanto che la legge è considerata secondo un'ottica vassalliana, amplificata anche da Grossi, come solo uno dei tanti vestimenti del giuridico. La questione si apre perciò sulla dialettica tra legge e diritto. La legge è diritto, ma non è il diritto. Essa non vi si può indentificare perchè è incapace di esprimere compiutamente il diritto. Non è altro che il problema di riportare il giurista alle leggi. Tuttavia la posizione di Vassalli, che può apparire contraddittoria con la sua stessa opera di codificazione, non è un caso isolato. Infatti ricordiamo in Germania il civilista Wieacker. Il suo filonazismo si riduceva alla coscienza della storicità di certe decisioni, espressioni del proprio momento storico prima ancora che simboli di un regime o di un'ideologia politica. Vediamo quindi due testimonianze di una scienza giuridica che vuole dar vita ad istanze contemporanee adeguandole tecnicamente.
    Ylenia Coronas

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  20. Come riportato in precedenza dai miei colleghi, “la fondamentale innovazione teorica della fisiocrazia consiste nell’individuare la fonte della ricchezza nel momento della produzione di beni e non, come il mercantilismo, nella circolazione delle merci, cioè nel momento dello scambio”. I Fisiocratici, detti anche économistes, ritengono dunque l'agricoltura vera base di ogni altra attività economica: tutto il relativo ciclo economico assume come fine ultimo quello di realizzare un prodotto netto, che poi verrà investito nuovamente nell'agricoltura stessa. La natura e i processi naturali sono determinanti per il mercato e per il sistema economico: alla base del pensiero fisiocratico vi sono infatti i concetti di “legge naturale” e di "ordine naturale". Le leggi naturali sociali, che stanno alla base della società, hanno natura morale e possono prevalere solo se rispettate dagli uomini, compreso il Sovrano, che dunque non può intervenire in modo arbitrario, ma deve limitare il suo intervento nel ciclo economico rendendolo meno incisivo, e tutelando il rispetto del diritto naturale alla proprietà. In definitiva, gli èconomistes suggerivano di intervenire nel settore agricolo eliminando la tassazione per gli agricoltori e stabilendo una tassa unica sui redditi fondiari dei proprietari; un’altra richiesta fondamentale riguardava la libertà di circolazione dei prodotti. Molto ha inciso la condizione della Francia dell’epoca: paese prevalentemente agricolo, risultava diviso tra un sud nel quale prevaleva la piccola proprietà e la mezzadria, ed un nord avanzato, nel quale prevalevano grande proprietà ed affittanza. Dal punto di vista fiscale inoltre, la Francia risultava divisa in cinque circoscrizioni doganali, che ostacolavano la libera circolazione dei beni e soprattutto del grano.
    La fisiocrazia e le teorie fisiocratiche si accompagnano in un certo senso alla nascita dell’economia come disciplina autonoma positiva. Precede infatti di qualche decennio rispetto alla pubblicazione de “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith (ritenuta tradizionalmente il nucleo ideale dell'intera storia dell'economia), “Le Tableau Economique” di Francois Quesnay, stampato nel 1758 e considerato il testo fondamentale della scuola fisiocratica. In esso si sottolinea il legame esistente tra processi produttivi ed equilibrio macroeconomico: gli scambi sono dipinti come una sorta di “flussi circolari” di moneta e merci tra classe produttiva, classe distributiva e classe sterile, secondo uno schema che può associarsi, fondamentalmente, al modello della circolazione sanguigna. Marx apprezzerà l’assenza nella costruzione di Quesnay di una distinzione delle classi per ceto, ravvisando al contrario delle classi puramente economiche.

    (continua)

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  21. Nel Tableau la terra assume un ruolo centrale: la ricchezza della nazione si riconosce nella produttività della terra, tanto più che tra le classi individuate da Quesnay la più importante è costituita dai c.d. “Lavoratori Produttivi” (agricoltori, pescatori ed allevatori), gli unici a produrre nuova ricchezza “dal nulla”; accanto ad essi, si pongono i “Proprietari Terrieri” (aristocrazia ed alto clero), e i “Lavoratori Sterili” (artigiani e mercanti), che si occupano delle manifatture limitandosi a trasformare i beni creati dalla classe produttiva. Il modello elaborato da Quesnay è sostanzialmente un modello statico e stazionario, che non permette di verificare alla fine del ciclo di produzione e distribuzione un aumento della ricchezza complessiva (anche perché tale modello non si pone il problema della domanda effettiva), ma che negli intenti doveva incarnare una vera e propria “macchina della prosperità”, per utilizzare le parole di Giorgio Gilibert.
    Piuttosto, il Tableau mirava, da una parte, a porre in evidenza il meccanismo di circolazione di denaro, manufatti, materie prime e prodotti agricoli tra le classi sociali individuate, dall’altra, a definire il carattere produttivo della sola classe agricola, l’unica a realizzare un “sovrappiù” (ovvero “quella la parte del prodotto che eccede non solo i mezzi di produzione, ma anche le sussistenze necessarie”, per un’analisi più dettagliata rimando a “Il concetto di sovrappiù e Le tableau économique nel pensiero fisiocratico”, cui si può accedere dal portale dell’università di Macerata) che le altre due classi potevano consumare, ipotizzando un sistema circolare di scambio tra le principali classi economiche. La concezione classica è proprio quella di “produzione di merci a mezzo di merci”, nella quale gli stessi beni entrano come imput ed escono come output.
    Nonostante la sua eccessiva schematizzazione, deve riconoscersi la validità del modello in esame, quale formulazione di un modello matematico di analisi dei flussi, che pone in evidenza le relazioni intercorrenti tra i diversi soggetti economici.
    Per chi volesse approfondire il modello del Tableau Economique, al di là del testo stesso ovviamente, ho trovato uno scritto da Nicolas Baudeau, fondatore della rivista Éphémérides du citoyen (inizialmente volta a combattere le dottrine di Quesnay e gli altri fisiocrati ma divenuta in seguito organo di diffusione del pensiero degli stessi), intitolato “Il tableau économique di Quesnay Francois”.

    Alessia Guaitoli

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  22. stavo rileggendo i diversi commenti e volevo specificare una cosa riguardo al commento lasciato da valentina tonnicchi sul savigny,dicendo che comunque egli in realtà non era contrario al concetto di codificazione in sè ma era semplicemente del parere che, rappresentando questa una cristallizzazione dell'evoluzione della società, ed essendo quello un periodo poco favorevole per la germania, la codificazione non pareva essere possibile in quel periodo..
    bisogna anche notare che comunque il savigny non ravvisa mai il periodo adatto alla codificazione per la germania..

    morena sicignano

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